L'artista vede il mondo da una prospettiva diversa (talvolta la pure inventa) rispetto a coloro che lo circondano, il suo sguardo e la sua percezione dell'altro, del non conforme, sono stati per secoli il fulcro che a portato all'innovazione e al progresso della cosiddetta società civile. La cultura dell'arte ha mostrato al popolo esigenze nascoste e profonde, evidenziando bisogni celati e sviluppandone di nuovi, in quanto il compito di chi crea è sostanzialmente quello di palesare agli altri quanto l'estro e le capacità umane possono fondersi per dar vita a qualcosa a di nuovo e pulito, lontano dalle fredde logiche del mercato di consumo ed assimilabile sempre più a quella concezione astratta ed antica a noi nota come "il bello".

Si potrebbe discutere per ore del significato empirico della "bellezza", un argomento che affascina e coinvolge discipline che vanno ben oltre la parola scritta, attraversando il calore dell'oratoria per poi scivolare lentamente nell'apparente freddezza dell'analisi matematica e dell'economia, ma questa recensione non è sicuramente lo spazio più adatto per disquisire di tutto ciò, sia per la complessità dell'argomento e sia a causa della poche conoscenze da me possedute, del tutto insufficienti per poter scavare con la giusta profondità in un terreno così aspro e pieno di strati che si sono sedimentati nel corso dei secoli. Detto ciò voi, a tal punto, mi chiederete: allora perché tutto 'sto preambolo per alla fine dire che sei troppo ignorante per poter andare avanti? Una domanda corretta e che non fa una piega, alla quale vorrei rispondere in maniera molto semplice: ascoltando il nuovo lavoro del Brad Mehldau Trio, dall'emblematico titolo "Where Do You Start", mi sono convinto ancora di più del fatto che una proposta musicale abbastanza scarna dal punto di vista della strumentazione (siamo nel classico ensemble jazz composto da: piano, contrabbasso e batteria) può nascondere al suo interno una bellezza ed un pathos davvero unici, specialmente in una momento storico in cui la musica viene fortemente sacrificata in favore di un'estetica esasperata ed esasperante. Secondo me è proprio questo il senso dell'esistenza di certe formazioni, infatti, oltre a produrre dell'ottima musica (ma qui siamo nel campo dell'ovvietà: come dire che l'acqua disseta), musicisti di tal calibro ed esperienza vivono la propria arte in una dimensione che trascende il tempo moderno stesso.

Pensate a cosa sarebbe un concerto pop (ma non solo) senza elettricità: non potrebbe esistere! Con questo non voglio certo rinnegare la bellezza di una chitarra elettrica ben amplificata e distorta, oppure quel sapore di sogno etereo che può essere sprigionato da un sintetizzatore ottimamente suonato e dosato, piuttosto quello che mi preme evidenziare riguarda il modo con cui certi dischi possono essere un vero e proprio ponte fra passato e presente, visto che: se da un lato un lavoro del Mehldauo Trio può tranquillamente prescindere dalla presenza o meno di una fonte elettrica (quest'ultima intesa più in generale come simbolo del mondo moderno), dall'altro il repertorio del nostro attinge a piene mani da una musicalità molto attuale, si pensi alle varie reinterpretazioni (attenzione: non ho volutamente usato il temine covers!) di brani appartenenti a bands come Oasis, Radiohead, Soundgarden, ecc... E qui mi riallaccio al tema iniziale, quello dell'esperienza empirica della "bellezza", la capacità di perdersi in suoni che attingono da un presente roboante e potente, figlio dell'innovazione e del progresso che hanno travagliato ed animato tutto il Novecento, ma che al tempo stesso si perdono in un senso dell'acustico e dell'estetica proprio del passato dell'arte, quello dove il laboratorio di creazione non era uno studio di registrazione, bensì un foglio di carta, una penna e tanta voglia di andare oltre, fin dove lo permettevano il pentagramma e le dita.

La sorprendente consapevolezza di camminare su un filo con il mondo di oggi da un lato e quello passato dall'altro: questa è la sensazione che proprio ogni volta che ascolto un disco come "Where Do You Start", un'opera che si può considerare complementare al precedente "Ode", in quanto, se in quest'ultimo avevamo tutte composizioni inedite che avevano una volontà "celebrante" ora ci troviamo davanti all'operazione inversa: omaggiare il passato per celebrare l'attualità e la vivacità della propria musica. Di Jazz in questo lavoro ce n'è veramente tanto e di una fattura pregevole, l'interplay è a livelli stellari e il pianismo di Brad Mehldau sembra ancora più lirico ed estroso grazie ad una sezione ritmica impressionante (Larry Grenadier al basso e Jeff Ballard alla batteria), che dialoga con il leader in maniera precisa ed efficace, rincorrendone i suoni ed accarezzandone la poetica. Si potrebbe parlare ancora tanto, potrei dirvi di quanto è piacevole ascoltare brani come "Jam" (unica composizione originale dell'album, il resto sono rimodulazioni) o "Got Me Wrong", ma a che servirebbe? L'unica cosa che posso fare è quella di consigliarvi l'ascolto, di prendervi una pausa e di assaporare ogni nota della nuova uscita discografica del Brad Mehldau Trio, poi saprete dirmi se avevo, oppure no, ragione.

Oggi i sognatori pagano a caro prezzo gli scherzi del loro cuore, c'è chi vuole farci credere che là fuori non c'è più nulla, che ormai il mondo appartiene a chi si rassegna a non essere, ma io non ci voglio credere! Per settantotto minuti ho udito il suono della buona musica e della grande arte, due cose che, seppur rare, danno ancora la speranza per un futuro diverso e magari migliore. Brad Mehldau Trio: Brad Mehldau: piano; Larry Grenadier: bass; Jeff Ballard: drums.

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