Brad Mehldau. Un genio.

 

La pentalogia di “The Art Of The Trio” da sola potrebbe bastare per mettere tutti d'accordo sulla grandezza artistica di questo pianista-rivelazione degli ultimi dieci, quindici anni, ed inserirlo di diritto nel Pantheon dei grandi del Jazz.

 

Un pò di storia. Brad nasce in Florida nel '70, comincia presto studi classici passando poi al jazz, e arriva a New York nel '89. Da quel momento sarà richiestissimo come sideman in una moltitudine di registrazioni, collaborerà con Jimmy Cobb (storico batterista di “Kind Of Blue”), Cecil Payne (sax baritono che suonò con Dizzy Gillespie) e il talentuoso sax tenore Joshua Redman. Collabora anche col chitarrista Peter Bernstein e col grande Charlie Haden (bassista del rivoluzionario gruppo di Ornette Coleman, che sconvolse il mondo del jazz all'inizio dei '60). Dopodiché collabora in Spagna con i fratelli Mario e Jorge Rossy. Con quest'ultimo stringerà un forte legame artistico e di amicizia, ed egli diventerà suo batterista di riferimento per molti anni a seguire. Anni che lo vedono firmare un contratto in esclusiva per la Warner, una major importante, che sa credere in questo giovane promettente e riesce a valorizzarlo. Nel frattempo Umbria Jazz nel '97 lo consacra, acclamando le sue straordinarie performance tenute in “semisegreto”, dopo la mezzanotte, nella sala della Turrenetta (una dépendance del Teatro Turreno di Perugia). Prima sera mezza vuota, ma il passaparola gira velocemente e si arriva presto al pienone, con la gente rimasta fuori per le sue ultime due performance.

Dopo questo successo, Mehldau viene costantemente invitato, negli anni successivi, stavolta tra i “big”, ed è per lui il battesimo di fuoco definitivo. Critici europei ed italiani in delirio, si grida al miracolo, al “nuovo Bill Evans” e così via. La rivista Musica Jazz lo elegge miglior talento del '98, e le rassegne musicali se lo contendono, addirittura va in sovraesposizione per i troppi inviti. Senonché la stampa ricama troppo sul suo aspetto da bello e dannato, sulla sua tossicodipendenza, sugli aspetti extramusicali della vicenda, come il suo modo di sedersi al piano, di tre quarti, tutto incurvato...come Bill Evans. Già, un nome che Brad comincia a trovarsi cucito addosso, e la cosa lo manda in bestia. I suoi lavori in trio, con gli ottimi Larry Grenadier al contrabbasso e il già citato Jorge Rossy alla batteria, hanno in effetti ben poco in comune con l'opera di Evans; in realtà i due sono accomunati solo dal fatto di essere bianchi, di saper suonare le ballad in maniera magistrale, e di aver avuto problemi di dipendenza! Per quanto lusinghiero, l'accostamento ad Evans non è pertinente, e viene visto come grande superficialità critica da Brad, che comincerà nelle sue leggendarie liner notes dei suoi album una vera e propria battaglia per l'affermazione della propria visione musicale e filosofica.

Il "Vol. 3" uscito nel '98, è, come il primo volume della serie, un lavoro in studio. Il sottotitolo è, semplicemente, “Songs”, Canzoni. Ed è proprio la forma-canzone ad interessare maggiormente Mehldau, che scopre in questi pezzi la possibilità di conciliare meravigliosamente melodia e improvvisazione, lirismo e virtuosismo. Un album scavato su dolci malinconie, vecchi ricordi. Il lavoro è composto da 10 brani; 5, bellissimi, scritti da Mehldau, più 3 standard non troppo frequentati, più 2 gioielli “pop”: la straordinaria “River Man” di Nick Drake, ed “Exit Music (For A Film)” dei Radiohead.

Fin dai primi momenti di “Song-Song”, che apre il disco, si avverte un senso di ampio respiro, di padronanza dei propri mezzi. Bellissimo arrangiamento di basso e pianoforte e bellissimo inizio della parte improvvisata, lanciata da un semplice quanto sensibile fill di batteria in levare, che ricorda gli antichi sapori del fill di “So What”, su “Kind Of Blue”. Segue “Unrequited”, pezzo veloce ma lirico in cui Mehldau compie un vero e proprio miracolo: un assolo di tale complessità e bellezza, fluente come le onde del mare in tempesta, in un crescendo di emozioni da mozzare il fiato! La sua indipendenza delle mani ricorda il grande Glenn Gould. Riesce ad improvvisare su due livelli contemporaneamente, creando linee melodiche contrappuntali che si rincorrono, si intersecano, restando sempre nitide e distinte. Non pago, aggiunge un terzo grado di libertà nella sua improvvisazione: la differenza di tempo e metro tra le due mani, ad esempio un quattro quarti veloce con la destra mentre la sinistra va su un tempo medio delle note gravi, in 5/4. Una cosa da mandare in tilt anche un buon batterista. Per un pianista invece è semplicemente fenomenale, specialmente considerando che contemporaneamente anche la scelta delle note suonate è perfetta. Non so quanto Mehldau possa aver studiato a tavolino l'architettura di questo assolo, o se invece gli sia uscito fuori così, per flusso di coscienza, fatto sta che il risultato è incredibile. Ottima la rilettura di “Bewitched, Bothered And Bewildered” di Rodgers & Hart, e la memoria corre all'immortale interpretazione che ne diede Ella Fitzgerald nel lontano '56...

Capitolo a parte meritano la bellissima “River Man” di Drake, un brano già splendido, di cui Brad dispiega tutto il lirismo, e “Young At Heart”, un pezzo che rievoca l'infanzia. L'inizio è delicatissimo, e si sente anche il suono di un carillon. La giovane età viene richiamata alla mente con toni sommessi, garbati, attenti a non ferire, come a cullare il concetto stesso di infanzia, trattata come un fragile guscio. Ma ad un tratto il guscio si frantuma, e una sottile angoscia comincia a crescere, fino ad esplodere in un impotente singhiozzo di disperazione, nella certezza che quel dolce periodo della vita e delle emozioni è impossibile da ripetere. Un'interpretazione da grande artista.

Scusate se mi sono dilungato...

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