«Jump», canzone e video, la conoscete tutti di sicuro, con David Lee Roth che salta in aria, tipo spaccata, al rallentatore, potenza di una MTV ancora infantile ma che le stelle della radio le aveva già annichilite tutte.
Comunque a me David fece subito simpatia da subito, poi qualche annetto dopo divenne il mio idolo assoluto per via di tre micidiali tamarri australiani che gli dedicarono un brano terrificante per suono e testo, e da lì a comprarmi un suo poster da appendere in cameretta ci mancò davvero poco. Poi ne sono uscito.
Però ai tempi mi misi a cercare qualcosa dei Van Halen, e allora mi feci registrare su una cassettina il loro primo e mi fece discretamente schifo, per via di come cazzo suonava Eddie Van Halen. Ovvio che la cosa era ancora inconsapevole, che la passione per Johnny Ramone arrivò dopo, però si vede che ce l'avevo già dentro che quel tipo di chitarristi non faceva proprio per me.
Quale tipo di chitarristi? I Van Halen, i Vai, i Malmsteen, loro insomma, quelli che in una corsa all'eccesso e all'effetto speciale soppressero praticamente ogni forma di spontaneità e comunicatività e resero il talento qualcosa di asservito solo ed esclusivamente alla tecnica, o meglio al tecnicismo: «Se uno voleva davvero competere con Re Eddie doveva essere velocissimo, avere un look cool e portare con sé una chitarra mai vista prima.».
Non faceva proprio per me, allora come ora, io che il massimo del virtuosimo chitarristico che capisco è Fdeniz Tek, e così dei Van Halen in discoteca ho un benemerito nulla, loro se ne sono fatti una ragione, io pure e viviamo tutti contenti, io, Eddie e pure David.
E però da una decina di giorni a questa parte, Eddie mi è cresciuto a dismisura in simpatia e stima, pure più di David.
Tutto merito di questo agilissimo libretto a lode e gloria della chitarra elettrica e dei piccoli grandi eroi che ne fecero la storia e che a Eddie dedica un intero capitolo.
Il perché è presto detto, in tre mosse.
Allora, a una certa Eddie racconta che una notte gli telefona a casa uno, la linea è disturbata, non si capisce granché e lui parte ad inveire contro quello all'altro capo del filo, chi cazzo sei, ma che cazzo vuoi, pezzo di stronzo, e riattacca; il giorno dopo, altra telefonata notturna, quello all'altro capo del filo si presenta come il pezzo di stronzo del giorno prima e poi declina le generalità, Quincy Jones che gli vuole proporre di suonare in un pezzo di Michael Jackson che andrà poi a finire su «Thriller»; e da quel momento, ogni volta che avrà a che fare con Eddie, Quincy si annuncerà sempre come il pezzo di stronzo.
Poi, c'è la storia della grande amicizia venuta fuori con Les Paul – ecco, qualche capitolo prima di Eddie, ci sta il capitolo dedicato a Les e a tutte le sue genialate, e dire che per me Les Paul fino a una quindicina di giorni fa era un tipo di chitarra sentita in una canzone dei Clash – e Les che immancabilmente ripeteva a Eddie che in fondo la storia della chitarra elettrica l'avevano scritta in tre, lui nel senso di Les, lui nel senso di Eddie e Leo Fender era il terzo, e poi partivano a cazzeggiare.
E alla fine del capitolo su Eddie ci sta la citazione di un pezzo grosso, il direttore del museo nazionale di storia americana Smithsonian, che implorò Eddie di concedergli in esposizione la sua Frankenstrat perché «Il museo colleziona oggetti multidimensionali e questa chitarra simboleggia innovazione, talento e influenza», e quell'infame di Eddie rifiutò, concesse un duplicato e ci tenne ad aggiungere che la Frannestrat simboleggia anche «... un bel po' di tempo passato a cazzeggiare.».
Ecco, a me questa cosa ha ricordato tanto Franti del libro Cuore, l'unica cosa di quel libro subito a forza che a me, e credo a tanti altri, almeno a Umberto Eco sicuro, sia davvero rimasta impressa, quell'infame che sorrise. E quel cazzeggio intorno alla Frankenstrat è stato il mollettone che ha spinto tanto in alto la simpatia per Eddie.
Perché, dietro e ben oltre quel cazzeggio, in fondo ci sta la passione divorante di un ragazzetto olandese che, nemmeno adolescente, sbarca negli Stati Uniti e mica trova tanto facile inserirsi e allora passa le giornate a casa, nella cameretta, ad armeggiare sulla chitarra regalata dai genitori, e poi nel negozio di un altro passionale come lui, tale Wayne Charvel, e poi a rimediare chitarre in giro, smembrarle e riassemblarle a propria immagine e somiglianza, fino a dare vita alla Frankenstrat.
E poi quella cosa che dice ad un certo punto Eddie: «Di certo ha avuto grande importanza il fatto che non abbia mai preso lezioni di chitarra: non sapevo cosa fosse giusto e cosa sbagliato, non avevo idea che ci fossero delle regole. Sapevo solo cosa mi piaceva, cosa volevo tenere in mano e quali suoni volevo sentire.».
Bellissimo, a prescindere da qualsiasi considerazione sulla musica che suona.
Ecco, ne trovate tante di storie come quella di Eddie Van Halen nei 12 capitoli di «A tutto volume. Una storia epica dello stile, del suono e della rivoluzione della chitarra elettrica.», da quelle meno note, da George Beauchamp a Charlie Christian, da Les Paul – quello che legò il suo nome alla Gibson e i Clash che la citano in «All the Young Punks» – a Chet Atkins, da George Gruhn a Paul Reed Smith, a quelle che conoscono più o meno tutti nelle loro grandi linee, da Jimi Hendrix a Pete Townshend, da Jimmy Page a John Lennon e George Harrison, dalla Fender alla Gibson alla Rickenbacker.
E la cosa più bella di questo libro è che, dietro la storia di una chitarra, che in sostanza è solo un oggetto inanimato, per quanto possa assurgere al rango di opera d'arte, viene fuori sempre la storia di una o tante persone, quelle che la chitarra l'hanno sognata e quelle che la chitarra l'hanno costruita dando corpo al sogno; e questo, i due autori, Brad Tolinski e Alan Di Perna, lo fanno risaltare in modo egregio.
E allora mi pare giusto chiudere colle parole di George Gruhn, uno che la chitarra l'ha strappato da una vita passata a studiare rettili: «Non prevedo di andare in pensione. Come di fa ad andare in pensione da un hobby?».
Solo due cose, prima di finirla una volta per tutte.
La prima è che, quando ho scritto che si tratta di un libro “agilissimo”, in realtà sono poco meno di 400 pagine, ma letteralmente filano via alla velocità della luce, e sono fitte di curiosità e aneddoti, tipo la discussione surreale tra Jimi Hendrix e Pete Townshend su chi dovesse esibirsi per primo in un certo qual festival rock.
La seconda è che questo libro lo consiglio vivamente a tutti, a prescindere dalla conoscenza della materia, sia che uno sappia vagamente che forma ha una chitarra elettrica oppure come me sia in grado a malapena di cambiare una corda oppure come Ingui Malmstin sia capace di suonare 10.000 scale in 23 secondi netti, perché qui lo dico e lo ridico che senza chitarra elettrica niente rock'n'roll.
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