Lo dirò con la massima schiettezza: non credo che questo sia il posto migliore per parlare di dischi e artisti del genere: “name recognition” inesistente o quasi, ed è un fattore che conta, oh, se conta … e genere che di solito attira ben poche attenzioni. Brandi Carlile fa country; non un country dozzinale da bettola dell’Oklahoma o, assai peggio, schifezza patinata da jet-set, ma il suo non è nemmeno quel tipo di country che fà figo; si può dire che Brandi Carlile sia una brava e onesta artigiana del suo genere, un’artista equilibrata, cantautrice efficace, capace di raggiungere l’ascoltatore con semplicità e spontaneità, con sonorità tradizionali interpretate con slancio e la giusta convinzione, senza complicazioni e inutili autoindulgenze.

Classe ’81, originaria dello stato di Washington, a dire il vero Brandi Carlile gode di una buona popolarità negli States, mai quanto una deplorevole Taylor Swift o Miranda Lambert, ma si tratta comunque di un livello upper-mainstream assolutamente rispettabile. Qui da noi però neanche a parlarne, purtroppo. Comunque, parliamo di un disco country/folk con una significativa influenza gospel, presente nelle melodie e negli arrangiamenti di alcuni pezzi e, soprattutto, in maniera trasversale, nel cantato, sempre impostato verso una leggera, ma distintamente percepibile, teatralità. Tra l’altro Brandi ha un gran bel timbro, limpido, potente ed espressivo, molto duttile, che raramente da l’impressione di “forzare”, quindi questo stile le si addice perfettamente.

“Bear Creek” (2012) è, a suo modo, un album quasi perfetto. Da un punto di vista strutturale, soprattutto; una buona varietà stilistica, melodie “paracule” quanto basta, apprezzabile maturità ed efficacia. Le atmosfere sono generalmente rilassate, dolci, ai limiti del bucolico, con un paio di significative eccezioni: “Raise Hell”, un’incalzante country-rock dal retrogusto outlaw/western, non eccelso ma piacevolmente catchy, e “Rise Again”, performance elettrica a’la Sheryl Crow, con influenze bluegrass nelle strofe e un certo sentore nativo-americano nei cori che accompagnano il ritornello. Il cuore di “Bear Creek” però sta altrove, sta in episodi come “Hard Way Home”, acustica ma con un’ottima vivacità e progressione melodica; sono gli influssi gospel a fare la differenza, mentre nella simile ma meno enfatica “Save Part Of Yourself” si apprezzano le armonie del banjo, dal piacevolissimo sapore bluegrass.

Ovviamente non mancano i lenti, e fortunatamente Brandi sà gestire bene anche quelli: con “That Wasn’t Me" esce un po’ dall’alveo country-folk proponendo una bella piano-ballad intrisa di gospel, mentre in “A Promise To Keep”, uno dei massimi vertici dell’album, ci si riimmerge completamente, con una melodia accorata, di un sapore classico e semplice che previene qualsiasi eccesso di melodrammaticità. Ancora arpeggi bluegrass nel crescendo di “In The Morrow”, mentre la conclusiva “Just Kids” propone sonorità più dilatate e soffuse, ricorrendo ad orchestrazioni e addirittura all’elettronica; potrebbe apparire come qualcosa di leggermente “nenioso”, almeno ad un ascolto distratto, ma anche qui la sostanza non manca. L’arrangiamento comunque è piuttosto manieristico e fuori tema rispetto a tutto il resto dell’album, al punto da compromettere parzialmente l’efficacia di quella che, con un approccio un po’ più sobrio, sarebbe stata una bella e introspettiva folk song.

Semplicità, quindi, è questa la parola chiave, nonché una delle qualità migliori di Brandi Carlile; basti pensare all’efficacia di una melodia acqua & sapone come quella di “Hearts Content”, e a “Keep Your Heart Young”, la canzone che, più di ogni altra si avvicina al country più tradizionale; grande melodia e un testo schietto, a metà tra innocenza e amarezza; qualcosa del genere non sarebbe fuori posto nel repertorio di una Loretta Lynn, ad esempio, o di qualche altra “grand ole lady”.

Comunque, direi che in generale “Bear Creek” è un disco adorabile: assolutamente non innovativo, nessuna pretesa particolare, ma funziona perfettamente. Si può definirlo come un disco folk, country, americano, metterci davanti qualsivoglia etichetta si preferisca, ma in casi come questo ritengo sia molto più costruttivo e opportuno “globalizzare” un po’ il contesto: per me, “Bear Creek” è semplicemente un album di musica radiofonica di qualità più che buona; credo e spero che basti questo.

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