Mi accingo a recensire quella che, senza esagerazione alcuna, può a buon diritto considerarsi una pietra d'angolo nella produzione del grande sassofonista di New Orleans; opera eccelsa ed epocale, con cui tutto il Mainstream Jazz contemporaneo ha avuto il dovere di confrontarsi. Non prima d'aver ripercorso in breve alcuni momenti significativi della prima parte di carriera del nostro (presupposto necessario per la comprensione dell'opera in questione).
Dopo aver fatto gavetta nei Jazz Messengers del batterista Art Blakey, Branford Marsalis (classe 1960) aveva in pochi anni letteralmente bruciato le tappe di una crescita artistica con pochi eguali: una crescita passata attraverso la permanenza nel gruppo del fratello Wynton e la prestigiosa partecipazione a "Decoy" di Miles Davis, prima del debutto da solista con "Scenes In The City" nel 1984. Nel 1985 era infine avvenuto il decisivo incontro con Sting, che lo volle ad impreziosire le raffinate atmosfere del sensazionale "The Dream Of The Blue Turtles" (con lui a suonare in quell'album c'era anche il compianto Kenny Kirkland, poi suo collaboratore fisso, e santoni della Fusion anni '80 del calibro di Darryl Jones e Omar Hakim). Proseguendo poi la collaborazione con l'ex Police fino al termine degli anni '90, Marsalis ha avuto modo di arricchire il proprio bagaglio artistico sviluppando una mentalità molto più aperta e versatile di altri jazzisti a lui contemporanei.
In molti si sono sbilanciati nel tentativo di tracciare un quadro (seppur approssimativo) dei sassofonisti che più e meglio lo hanno influenzato (inevitabile, a questo proposito, scomodare personalità del livello di John Coltrane e Wayne Shorter), operazione peraltro molto dispendiosa e forse neanche necessaria, considerando l'eclettica e variegata formazione del nostro. Se altri strumentisti si sono mossi, negli anni, alla continua e frenetica ricerca di un proprio stile individuale, nonché alla marcata ostentazione dei propri tratti di diversità rispetto a quanto li avesse preceduti, scopo primario del percorso artistico di Branford è stato quello di assimilare suoni e tendenze dei maestri del Post Bop in una forma elegante, sfaccettata e comprensiva delle svariate influenze che il genere ha raccolto nei decenni; influenze pur sempre mediate dalla propria peculiare sensibilità, da una spiccata predisposizione a un enciclopedico sincretismo di stili e da una curiosità e uno spirito di ricerca infiniti. Numerose sono state le critiche a questo atteggiamento, tralasciando la solita crociata puristica di certi esponenti della vecchia guardia che ancora sono poco inclini a perdonargli il compromesso con le sonorità Pop e la collaborazione con Sting: critiche riguardanti la presunta modesta originalità della sua proposta musicale, il suo essere portavoce di un Mainstream Jazz in parte interessante ma poco personale; critiche di chi non ha compreso appieno come invece Marsalis si sia concentrato sulla ridefinizione del proprio status di artista elaborando una consapevolezza creativa, una visione d'insieme del panorama Jazz (e non solo) che ben pochi contemporanei possono vantare.
Il tutto apparirà evidente dall'analisi di "Random Abstract", registrato a Tokyo nell'estate 1987 a conclusione di una tournée, e con il contributo di musicisti ampiamente rodati e affiatati: un fuoriclasse puro come il pianista Kenny Kirkland, con decine di sessions di prestigio alle spalle, e la puntuale sezione ritmica composta da Delbert Felix al basso e Lewis Nash alla batteria. Che la svolta sia nell'aria lo si capisce anche dal fatto che, per la prima volta nella sua (sino allora) breve carriera, Branford scelga di avvalersi di un terzetto fisso per la registrazione di un intero album, senza più ricorrere a tanti turnisti diversi nel tentativo di esprimere al meglio il "mood" di ciascun brano. E' un opera concepita dunque come organica sin dalla sua progettazione, a testimonianza di un leader perfettamente consapevole del proprio ruolo solista e al contempo del composito discorso musicale che è intento a sviluppare.
Dall'ascolto dell'opera si percepisce la sensazione d'aver a che fare con un musicista per cui il Jazz non ha segreti, sia che lo si voglia considerare esponente tardo del Post Bop (o persino pedestre emulo di Coltrane, come inopportunamente si è fatto), sia che lo si collochi nella scena Mainstream Jazz dei nostri tempi. Considerazioni che hanno ben poca importanza di fronte a un solista di raro gusto e sensibilità, capace di coinvolgere ed impressionare per padronanza di stile e virtuosismo: virtuosismo mai fine a sé stesso, ma calibrato e, per così dire, perfettamente contestuale a un'atmosfera complessiva di grande fascino ed emotività.
Apice, e insieme somma ideale di questa poetica è la memorabile, superlativa rilettura di "Lonely Woman" di Ornette Coleman; rispetto alla versione originale del sassofonista texano, la durata del brano viene triplicata, nel contesto di una poderosa rivisitazione che ne sottolinea splendidamente gli accenti più romantici, più languidi, più sensuali; il tema principale viene dilatato, rielaborato, enfatizzato in un'ottica di pura empatia collettiva, con un gruppo che asseconda alla perfezione la varietà delle sfumature e degli umori suggeriti dal solista. Non un pezzo di semplice atmosfera, né giustapposizione di più sequenze isolate in successione lineare: quel che più sorprende del brano è la processualità narrativa in esso insita, che genera nell'ascoltatore la sensazione d'aver di fronte un racconto coeso e coerente, più che una semplice somma di parti. Una superba pagina di musica contemporanea, di rara e stupefacente intensità.
Ma l'album non vive solo del suo apice, poiché anche il resto del repertorio sa sorprendere per solidità e compattezza d'insieme: a partire dal doveroso omaggio a Wayne Shorter e alla sua "Yes And No", sontuosa e frizzante apertura; passando per due pregevoli composizioni di Branford: la lenta "Crescent City", personale dedica a New Orleans, e il blues "Broadway Fools", anch'esso vagamente ricalcato sullo stile di Ornette Coleman, con un bel dialogo in apertura tra il sax e la batteria di Lewis Nash; e arivando al pezzo di certo più sperimentale dell'album, "LonJellis", sorta di "free form" frutto dell'inventiva di Kenny Kirkland, articolata su modulazioni scalari senza alcuna variazione tonale (il titolo è invece un omaggio di Branford al padre Ellis). Rimangono infine lo standard "I Thought About You" e la chiusura affidata ai trentaquattro secondi di "Steep's Theme".
Un album magistrale, emblematico dell'arte e dell'intera carriera di un musicista formidabile, e manifesto di tecnica e sensibilità fuori dal comune.
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