Già la copertina di Dubuffet ci comunica una sospensione, l'art brüt di spontaneità animiche, scarno romanticismo. Sorprendente è che dalla band, dopo il loro primo lavoro, non ci si aspettava più niente di progressione ad un miglioramento di frequenze che già erano vicine alla perfezione. Il ludo di giocare con le "biglie di vetro" già ci aveva trasportati su schicchere di altre dimensioni, eravamo oltremodo appagati.

E invece, guarda un po', il secondo parto ci obbliga ad andare di corsa a palestrarci psichicamente per sopportare il surplus di tutto questo po' po' di impianto emozionale infranto su di noi. Storditi meravigliosamente dall'ancor più inaspettato.

È un oceano di ipnosi regressiva dove tutti i déjà vu e le realtà parallele ci sballottolano in una pulizia dell'aura, dove un Sidol mistico fa brillare i ricordi felici che avevamo affossato. La palese brillantanza che la crema lucidante ottiene è solamente la volontà di perseverare un approccio smagliante e pacato nel recupero delle nostre gioie interiori.

Epurati desiderî materici e attingendo a piene mani in un naïf cosciente, gongoliamo senza troppe sofisticazioni sonore. Il privato del privato fa aggregazione nell'intimità della solitudine. Il risultato ci appaga nella dolcezza della scoperta. L'emanazione scorre estatica e l'impalpabile levitazione ci trasporta senza pensieri indotti in zone franche dove le associazioni non possono vincolarci, dove il cuore funziona come deve funzionare.

Dove nel primo lp c'era un superbo sensazionalismo nell'eccitazione di aver riconosciuto la "retta via", in questo c'è più umanità, impersonalmente c'è posto per tutti. Accomodiamoci pure...

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