Le prime voci sul debutto solista di Brendan Perry cominciarono a circolare già dalla fine del 1994, ma “Eye Of The Hunter” vide la luce solamente cinque anni dopo.

Questo lungo intervallo di tempo poteva lasciar pensare che l’opera prima della metà maschile dei Dead Can Dance sarebbe stato un disco particolarmente ricco ed elaborato, come e più dei dischi creati con la compagna di avventure Lisa Gerrard. Niente di più lontano dal vero.

“Eye Of The Hunter” è un disco intimista, scarno e sorprendentemente lineare considerando i passati lavori dell’autore. Le otto tracce dell’album sono dominate dalle chitarre acustiche e vedono Perry nei panni di un cantautore folk dalle tinte cupe, non a caso la bella cover di “I Must Have Been Blind” di Tim Buckley si amalgama perfettamente con il resto dei brani. Le percussioni sono ridotte al minimo (fanno un timido capolino solamente in “The Captive Heart”), le elaborate orchestrazioni dei tempi passati sono quasi del tutto assenti rendendo protagonista assoluta la meravigliosa voce di Perry, che risuona profonda e ricca come mai in passato.
I testi sono come sempre forbiti ed introspettivi e rapresentano l’unico elemento di continuità con il passato. L’ 1-2-3 iniziale di “Saturday’s Child”, “Voyage Of Bran” e “Medusa” è in grado di competere con le sue migliori composizioni nei Dead Can Dance, “Medusa” in particolare è senza dubbio uno dei suoi capolavori personali, impreziosita dall’arrangiamento più articolato dell’album e con un testo amaro e carico di astio. “Sloth” e la già citata “I Must Have Been Blind” sono i brani più “leggeri” dell’album che si chiude con la lunghissima, onirica e immensamente suggestivaArchangel”, dove la voce di Perry si alterna tra un falsetto carico di riverbero e gli scuri toni da crooner che lo hanno reso celebre.

"Eye Of The Hunter” non è un capolavoro, ma personalmente ritengo sia la miglior opera solista partorita dalla due metà dei Dead Can Dance dopo lo scioglimento, se non altro perché musicalmente ha il coraggio di distaccarsi da quanto prodotto nel passato e di cercare strade diverse, mentre la Gerrard (per quanto bravissima) ha sostanzialmente continuato a muoversi lungo gli stessi binari percorsi durante il sodalizio con Brendan Perry.

Un lavoro cupo e introverso, sicuramente non da ascoltare tutti i giorni, ma comunque di gran pregio e che permette di vedere Perry in una veste diversa da quella che lo ha reso famoso, certamente interessante per i fan dei Dead Can Dance.

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