Musicista di astronomica bravura, decisivo innovatore negli anni sessanta per il pionieristico accostamento della cultura jazz all'epidermicità del pop e del rock, l'organista e pianista londinese Brian Auger è stato un grande punto di riferimento per moltissimi anche negli anni settanta, accettando poi senza problemi, da persona serena e dal cuore d'oro, di scivolare decisamente in secondo piano mentre tanti altri tastieristi, neanche degni di allacciargli le scarpe, venivano innalzati a fenomeni in vece sua dagli addetti ai lavori e dall'immaginario collettivo.

Non è affatto difficile riuscire ancor oggi a vederlo suonare, a settant'anni suonati, dalle nostre parti (cosa che consiglio caldamente a chiunque): tiene moglie sarda, l'Italia è da sempre sua seconda patria, biascica decentemente l'idioma nostro e la sua ancora intatta voglia di suonare gli fa accettare con entusiasmo i modesti ingaggi che possono offrire dalle nostre parti i piccoli locali live music. Circola in proposito, da un paio d'anni, il DVD di un suo concerto piuttosto recente al Baked Potato (un rinomato "buco" jazz di Los Angeles) con l'attuale quartetto degli Oblivion Express, comprendente ben due figli suoi, la bella Savannah al canto ed il preciso Karma dietro la batteria, cosicché l'unico che non fa Auger di cognome è il bassista... Il palco è un semplice rialzo da terra dove i quattro musicisti trovano appena posto e la postazione di Brian è piazzata a mezzo metro dal primo dei tavolini occupati dagli avventori del locale, in visibilio ogniqualvolta lui fa cantare e ruggire l'Hammond come nessun altro.

Quest'album del 1971 lo coglie ad una svolta di carriera: ha appena assemblato una nuova formazione, e questa sigla Oblivion Express diverrà da quel momento quella definitiva della sua vita musicale, titolare di una dozzina di dischi. Auger vi assume temporaneamente anche l'onere del canto solista, involatasi da tempo July Driscoll, grande protagonista vocale delle sue precedenti formazioni anni sessanta Steampacket e Trinity. Un vero peccato, chè la voce negroide, potente ed espressiva di July forniva i necessari valori aggiunti di accessibilità e spettacolarità alla virtuosa musica di Brian, ma lei aveva a quel punto optato per lo sperimentalismo astruso e asimmetrico di un altro musicista, il fidanzato e poi marito Keith Tippett, abbandonando il rotondo british blues ricolmo di jazz del nostro. Amen.

La voce di Auger non è certo niente di speciale, un poco afona e povera, benché grintosa e simpatica. Strumentalmente invece siamo messi bene, nella prima incarnazione di questi Oblivion Express spicca il lavoro del batterista Robbie McIntosh, giovane ma già smaliziato musicista scozzese, il quale farà in tempo a mettersi in ulteriore luce qualche anno dopo con la Average White Band prima di soccombere, tristemente e prematuramente, alla classica overdose. Al basso opera un altro ottimo musicista il potente e intenso Barry Dean, alla chitarra una scelta non troppo felice di Brian, l'allampanato e sinceramente poco interessante Jim Mullen, la cui peculiarità maggiore sta nel pizzicare le corde dell'elettrica direttamente colle dita, senza usare il plettro. Il disco è uno di quelli registrati in poche notti di studio, come si faceva una volta: è palpabile il feeling "live" delle esecuzioni, certo meno precise ma molto più calde delle stratificate produzioni multitraccia che prenderanno piede di lì a poco.

Brian sceglie di aprire con due cover strumentali: omaggia innanzitutto l'amico ed ex compagno nei Trinity John McLaughlin, reinterpretando la melodrammatica "Dragon Song", uscita solo qualche mese prima sull'album "Devotion" del non ancora famoso chitarrista. L'arcigno e cupo riffone dal sapore molto progressive che caratterizza il pezzo dà modo, colle sue note sospese e allungate, di porre in grande evidenza il fluido lavoro percussivo di McIntosh.

"Total Eclipse" che segue, accreditata ad uno sconosciuto compositore di cognome Ball, viene dilatata oltre gli undici minuti da una psichedelica jam session, col pianoforte e poi  l'organo del leader in preda a liquidi e mistici ghirigori.

Nei restanti brani, tutti di sua composizione, Brian sperimenta le proprie capacità vocali e soprattutto la propria visione dell'allora nascente jazz rock, o fusion che dir si voglia, fatta nel suo caso di robusti riffoni rockblues all'unisono fra basso e chitarra, a fornire corposa spinta ritmica, con dietro di loro il deciso, ma agile portamento jazz della batteria e infine in primissimo piano la sua brillantissima vena jazzistica, al piano e soprattutto all'organo, sorretta da perfetta tecnica ma anche da intensità e sentimento proverbiali. Sotto le dita di Auger l'Hammond, questo mitico strumento concepito per accompagnare le funzioni religiose ed invece così ben adattatosi alla musica rock, abbaia e morde, descrive e accenta, stordisce e incanta, con una qualità senza tempo capace di vincolare più che mai l'appassionato a quegli anni rigogliosi della musica, vissuti dall'allora biondo virtuoso dei tasti d'avorio come assoluto protagonista.

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