A oltre quarant’anni dall’uscita nelle sale, questo film potrebbe risultare datato, invecchiato male, troppo semplice, lento. In effetti sotto certi punti di vista, principalmente tecnici, l’opera di De Palma non risulta certo freschissima. Ma lasciando perdere gli aspetti più superficiali e andando al cuore del film, penso che queste possibili critiche, più che andare a trovaredifetti a Carrie, siano una perfetta cartina tornasole di una certa piega che ha preso il cinema contemporaneo. Lo spettatore di oggi è assuefatto a certe forme ormai pervasivamente diffuse e fatica ad accettare un film come questo.
E quali sono queste caratteristiche? Una prima parte priva di orrore, tutta dedicata alla costruzione dello scenario, all’approfondimento psicologico dei personaggi, alla disposizione delle tessere di un domino destinato a crollare rovinosamente. Un cinema lento, molto sgranato, che sottolinea con enfasi quasi deformante i complessi psicologici della protagonista e le cattiverie che la circondano. De Palma, in un film dell’orrore, ha tutto il tempo necessario per fare un affresco crudo dell’ambiente scolastico, molto efficace e drammatico. C’è la professoressa che si prende a cuore la situazione di Carrie, c’è il preside distratto, c’è il belloccio di turno, la stronza malevola, quella che invece si pente e cerca di fare qualcosa per la povera compagna. La visione è molto lucida, per quanto non eccessivamente complessa; i ritratti dei personaggi assai efficaci, esatti.
Ma un film dell’orrore oggi non si potrebbe di certo concedere una intera ora per spiegare i personaggi, per farceli amare o odiare. Invece De Palma poteva farlo, non c’era l’urgenza eccessiva – ovvero scarsa pazienza – di molto cinema attuale. Lepremesse per lo scatenarsi dell’orrore vengono costruite con grande lentezza e precisione. Non esiste in questo film la necessità della sorpresa: al contrario, la catastrofe si avvicina poco per volta, ineluttabile e dolorosissima, ma non tanto visivamente, quanto dal punto di vista emotivo, anche per lo spettatore. È impossibile non prendersi a cuore la vicenda di Carrie, ed è impossibile non soffrire man mano che si avvicina il momento nefasto, quando il sangue di maiale ne imbratta il candore. Ed è un orrore massimamente efficace e vero: quello dell’essere umiliati e derisi davanti a tutti, proprio nel momento in cui ci si era illusi di poter avere una vita normale e anche felice.
Ed è bello e strano ai nostri occhi, assuefatti alla velocità e all’amplificazione, vedere come la carneficina finale si dispieghi senza grande ritmo, senza enfasi, che al contrario aveva connotato tutta la prima parte del film. Perché? Perché Carrie non uccide con compiacimento, non è un’assassina; uccide per dolore, per cancellare del tutto la vergogna dello stare al mondo dopo una simile umiliazione. Non c’è traccia di efferatezza nelle sue azioni, così come lo stile della regia si fa marcatamente distaccato, amareggiato. E la sequenza finale, a casa con la madre, è qualcosa di ancor più doloroso. L’annichilirsi di una famiglia, il piegarsi su se stessa per le turbe pseudo religiose di una donna deviata. E la carica distruttiva di una ragazza che vorrebbe vivere ma suo malgrado può solo morire e portare con sé la madre.
In mezzo a tutte quelle croci, candele e simboli religiosi, la fine di Carrie è quasi una passione di Cristo ribaltata, una morte che non porta salvezza agli aguzzini dell’agnello sacrificale, ma li trascina negli abissi infernali con esso. E quello che rimane nella testa dello spettatore è un orrore del tutto psicologico, un senso di morte dei sentimenti umani, non tanto un’eccitazione estetica. Ecco, l’estetica del film risulta penalizzata dai limiti tecnici, ma a livello di costruzione dei significati attraverso gli elementi visivi, non manca nulla. Ci sono cose memorabili: la purezza di Carrie (non a caso White di cognome) espressa cromaticamente da un abito quasi del tutto bianco, che man mano assorbe il sangue di maiale fino a diventare completamente rosso. E poi il bagno, il lavacro purificatore appena arrivata a casa, a riprova dell’assenza di malvagità nel suo cuore. L’importanza della simbologia, la posizione della madre, messa in croce dai pugnali volanti, che richiama quella della statuina nello sgabuzzino. E la terra nera, sprofondata verso l’inferno, della casa dopo il crollo. Gli occhi malvagi di Chris, i giochi di sguardi tra Sue e la prof, gli sguardi terrorizzati – e deformati quasi – di Carrie, lo specchio rotto col quale si trucca prima di uscire per il ballo. Insomma, c’è un lavoro anche estetizzante di non poco conto.
Il ritratto della protagonista è magnifico, delicato e doloroso come pochi altri in questo genere, ed è corroborato dalla prova magnifica dell’attrice Sissy Spacek. Davvero nei suoi sguardi si riesce a cogliere tutto il dolore di un’adolescenza devastata dalle angherie delle madre e delle compagne. Ma anche la madre è superbamente raffigurata da Piper Laurie: la sua follia puritana è tra gli elementi più convincenti del film. Tutto il cast dà grande spessore recitativo: penso a Nancy Allen che rappresenta benissimo la classica adolescente bella quanto insensibile e crudele. Ma non è da meno Betty Buckley nell’interpretare la comprensiva ma non abbastanza attenta Miss Collins.
Evviva questo tipo di cinema horror, evviva la prevedibilità e la semplicità delle trame, quando il portato emotivo ed esistenziale è di questa caratura. E quindi certe critiche, che possono sorgere spontanee oggi, molti anni dopo, vanno decisamente ribaltate e indirizzate a un cinema contemporaneo spesso ipertrofico, pompato, ma di scarso spessore psicologico e umano.
Un grande film di terrore interiore, che riesce ad essere al contempo uno dei migliori «high school movie» mai fatti. Non un esito propriamente facile e scontato.
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