Su un regista come Brian De Palma i giudizi sono sempre discordanti, e a ragione. Nato artisticamente sul finire degli anni sessanta insieme ai Coppola, agli Scorsese e tutti gli altri della New Hollywood, De Palma ha fatto tantissime cose, con risultati alterni: spesso e volentieri ha tentato la strada dell'anticonformismo (il musical rock Il fantasma del palcoscenico, 1974) e della sperimentazione (i primi film, come Oggi sposi, 1966, o Ciao America, 1968, ma anche l'ultimo Redacted, 2007); molte altre volte ha assecondato la propria passione per un genere, il thriller erotico, al quale ha dato un contributo fondamentale soprattutto negli anni ottanta (il celebre Vestito per uccidere, 1980, ne è il must indiscusso); si è dedicato a un barocco e turgido remake dello Scarface di Hawks con Al Pacino più epico che mai, e a un altro paio di gangster movies di ottima fattura (Gli intoccabili, 1987 e Carlito's way, 1993); e non di rado ha assecondato le esigenze dell'industria con operazioni di natura prevalentemente commerciale, con esiti ora positivi (Carrie, 1976, tratto da Stephen King) ora mediocri (Il falò delle vanità, 1990, da Tom Wolfe, Mission impossible, 1996).

Il minimo comune denominatore di tutti questi exploit è una maestria tecnica indiscutibile - i piani sequenza e lo split screen rappresentano due autentici marchi di fabbrica dello stile depalmiano, abusati fino al manierismo - unita a una robusta dose di cinefilia. Nume tutelare è, come ben si sa, Hitchcock, generosamente omaggiato nelle forme e nei modi più svariati, con una fedeltà al maestro a volte eccessiva, a volte discutibile, ma spesso indubbiamente feconda.

Di Hithcock, soprattutto, De Palma mutua certe tematiche ben precise - il doppio, le deviazioni di personalità, la donna come elemento perturbante, il voyeurismo, la scopofilia - e le porta verso sviluppi personali e inaspettati, ponendo inevitabilmente l'accento sulla componente tecnico-visiva, molto meno su quella drammaturgia. Di rado, guardando un film di De Palma con occhio critico, si riesce a farsi razionalmente convincere dagli improbabili contorcimenti narrativi delle sue sceneggiature (ben diverse da quelle, inattaccabili, del maestro Hitchcock), molto più facile è lasciarsi sedurre dall'abilità spettacolare di un professionista che per certi versi è anche uno dei più significativi Autori americani degli ultimi decenni.

Omicidio a luci rosse, che è da considerare il manifesto di De Palma (vi compaiono un po' tutto le caratteristiche del suo cinema), ovviamente non fa eccezione. Girato nel 1984, dopo Scarface, il film si muove per l'ennesima volta sui territori ben noti del mistery hitchcockiano, con palesi (anzi, plateali) rimandi a La finestra sul cortile e Vertigo.

Come in La finestra sul cortile, c'è di mezzo l'elemento voyeuristico: il protagonista, Jake Scully (Craig Wasson) spia la sua seducente dirimpettaia (che ogni sera si esibisce, senza ragione apparente, in una sensuale danza erotica con finale masturbatorio), e ben presto si accorge che qualcosa non quadra, e che un uomo, un agghiacciante indiano dal volto deturpato, sta cercando di ucciderla.

Come in Vertigo, c'è la donna che muore a metà film, il complotto omicida di cui il protagonista si scoprirà pedina, e soprattutto c'è la tematica dell'uomo fragile e vittima delle proprie paure (la claustrofobia di Craig Wasson è un chiaro rimando alle vertigini di cui soffriva James Stewart) che solo dopo aver compiuto un viaggio dentro di sé per affrontarle e superarle potrà tornare a vivere pienamente.

A questa emulsione di motivi hitchockiani, De Palma aggiunge una chiara componente metafilmica: la storia è ambientata nel mondo hollywoodiano del cinema di serie B, il protagonista è un attore in crisi (licenziato per via della propria fobia degli spazi chiusi) e a un certo punto entra in gioco la divetta porno Holly Body (interpretata da Melanie Griffith alla prima prova importante) che, scopriremo, ha avuto un ruolo nell'omicidio della donna: quello, seppur involontario, della "controfigura" (body double, controfigura, è appunto il titolo originale).

Se il film funziona, coinvolge, affascina non è tanto per il macchinoso e improbabile intreccio escogitato da De Palma e dal co-sceneggiatore Robert J. Avrech, quanto per la bellezza delle soluzioni registiche, capaci di rendere convincenti anche momenti che si presterebbero (involontariamente) a più di qualche risata. I difetti e i buchi di sceneggiatura di Omicidio a luci rosse sono infatti riscattati da uno stile potentissimo, che regala momenti fra i più indimenticabili del cinema depalmiano: penso in particolare al pedinamento nel centro commerciale, alla scena del tunnel, alla geniale sequenza sul set del film porno con tanto di cameo dei Frankie Goes To Hollywood che cantano Relax, al torrido bacio fra Jake e la vicina filmato con un vertiginoso carrello circolare (la citazione hitchockiana, qui, è più smaccata che mai, perfino negli stridenti violini della musica ottimamente scritta da Pino Donaggio).

Elegante e barocca allo stesso tempo, l'ispiratissima regia dà vita un'atmosfera intrigante e sensuale, non disdegnando di premere sul pedale dell'erotismo, né su quello dell'efferatezza (la scena della poveretta ammazzata col trapano è un cult del sadismo cinematografico anni ottanta, citata pure in American Psycho di Bret Easton Ellis). Omicidio a luci rosse è un tipico esempio di come un talento visivo fuori dal comune possa pienamente riscattare i difetti e le banalità di una sceneggiatura non proprio di ferro. Quasi tutto il cinema di De Palma - perlomeno nei suoi esiti migliori - è un ulteriore conferma di questo assunto.
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