L.A. Beverly Hills, 1967.

Era tutto finito: lo aveva capito subito, fin dai primi accordi. Gli altri, in tour senza di lui, li avrebbe avvertiti appena sarebbe stato in grado, tra qualche ora o tra qualche giorno, di alzarsi da quella maledetta poltrona che lo aveva come inghiottito. Non sapeva più neanche da quanto tempo era lì, con lo sguardo perso nel vuoto. Anche i rumori della strada sembravano provenire da un mondo dal quale sentiva di aver ormai preso commiato. La sua stanza era ridotta ad un campo di battaglia. Gli effetti della furia, che lo aveva lasciato in quello stato quasi catatonico, erano sparsi tutti attorno, insieme a ciò che rimaneva dei nastri della "teenage symphony to God", neri coriandoli di una macabra festa.
Un sorriso beffardo si era stampato sul suo volto non appena aveva ricominciato a connettere. Quell'immane fatica, l'opera che aveva assorbito tutte le sue energie, che lo aveva portato alla rottura con con i "ragazzi della spiaggia", a metter fine alla spensierata era del surf ("Surf's Up") non esisteva più, o meglio, era inservibile. Quei diavoli inglesi lo avevano anticipato. Le sue intuizioni, le innovazioni della forma canzone, gli arrangiamenti di cui era tanto orgoglioso, gli inserti pianistici e i testi dello strambo amico Van Dyke, dopo aver ascoltato quell'album fantastico, gli sembravano già datati, superati, come se qualcuno fosse entrato nella sua mente e avesse sviluppato in un modo migliore e, soprattutto, più compiuto le sue idee. No, non poteva accettarlo. E al diavolo tutto il tempo e i dollari spesi per quell'album che avrebbe dovuto rappresentare la sua personale rivincita, dopo il mezzo fallimento di "Pet Sounds". Aveva fatto ciò che era giusto: distruggere un'opera che ai suoi occhi non aveva più senso, che gli sembrava ormai inutile. LSD, che in altre occasioni era stata premurosa compagna, stavolta non gli dava alcun sollievo, lasciandolo ancora più solo con un ghigno stampato sul volto.

L.A. Bevery Hills, 2004

La stanza preferita della sua casa aveva al centro il bel pianoforte a coda. Alle pareti non c'erano dischi di platino incorniciati, ma solo qualche quadro e le foto dei suoi cari. Ad una era particolarmente legato: lo scatto che lo ritrae il giorno del suo compleanno insieme ai due fratelli morti, Dennis e Carl. Ogni pomeriggio egli andava al piano e suonava quelle che chiamava le sue "ossessioni", in particolare la "Rapsody in Blue" di Gershwin, che ha imparato ascoltando una vecchia registrazione, non sapendo leggere la musica. Poi passava a qualcosa di Paul, sempre, ma anche a "Be My Baby" di Phil Spector e per finire cominciava a comporre qualcosa di suo.
Questo lo faceva ormai regolarmente da quando stava meglio. Sì, tra poco sarebbe stato in grado di pubblicare qualcosa di nuovo, ma adesso doveva dedicarsi al vecchio-nuovo progetto. Aveva chiamato quel matto di Dyke Parks ed erano già d'accordo. Quei nastri, dimenticati da qualche parte nei magazzini della Capitol, sarebbero rinati, finalmente completati. Quella composizione, ricordava, nacque con un formidabile flusso creativo.
Era giovane, pieno di energia, gli sembrò di avere una sorta di visione e scrisse di getto, facendo a meno dei suoi abituali collaboratori. Alcune immagini ritornavano prepotenti nella sua mente, in particolare la sand-box, una specie di fortino di sabbia di tre metri quadrati dove aveva posto il piano. Gli dava l'ispirazione, gli sembrava di essere sulla spiaggia. Lì compose "Heroes & Villains", "Surf's Up", "Wonderful", "Cabin Essence"...poi i cani cominciarono a farci dentro i loro bisogni e smantellò tutto.
Ma non era il momento dei ricordi. Bisognava mettersi al lavoro. L'album amato-odiato lo avrebbe rifatto da capo, ma senza cancellare nulla, rispettando l'idea originale, quella di raccogliere la storia e la musica di ogni America, un vero caleidoscopio. Dopo un'attesa di 37 anni, la mitica "teenage symphony to God" avrebbe così rivisto la luce: un sorriso illuminò il suo pallido volto rugoso.

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