Ogni cosa di Conor Oberst è tesa ad irritarmi: lo era l'intervista a se stesso che chiudeva "Fevers And Mirrors" (e neanche una buona intervista), gli interminabili minuti che aprivano "Lifted..." (7 minuti francamente inascoltabili), lo erano i (falsi) sbagli di tempo di "False Advertising". Ad irritarmi erano tesi anche i 15 minuti di chitarra in distorsione che chiudevano il debutto "Letting Off The Happiness", che pure era già parecchio acerbo di suo. Se poi ci aggiungiamo una supponenza niente male e una tale fiducia nel proprio talento da fargli ritenere giusto pubblicare ogni schiocchezzuola e amenità varia (attraverso valanghe di singoli, ep, raccolte, progetti paralleli e collaborazioni assortite), ce n'è abbastanza perchè nasca odio nell'ascoltatore già parecchio frustrato dalla dispersiva iperproduzione attuale. Poi scopri pure che il nuovo album in verità è doppio, e che neanche s'è preso la briga di accorparli e allora li paghi davvero doppio; che il primo è tipico suono "Bright Eyes" ma il secondo strizza l'occhio (nientemeno che) all'elettronica. Scopri che i due singoli estratti dai due dischetti sono balzati rispettivamente alla prima e seconda posizione di Billboard e per noi, sfigati e romantici cultori del sottosuolo, noi che ci masturbiamo la mente coi Fugazi ma anche coi Karate, tutto ciò fa l'effetto del crocifisso al Conte Dracula. E però.
E però poi ascolti "Lua" e che vuoi farci - l'amore è cieco. E' talento puro quello che Oberst distilla, tonnellate di parole senza interruzione su spartiti folk-rock, ciò che può venir fuori se un piccolo moccioso arrogante cresciuto nella campagna di Nashville si sposti a New York e lì, in compagnia del meglio di quel sottosuolo di cui ci vantiamo (Emmylou Harris, Nick Zinner degli "Yeah Yeah Yeahs", Matt Maginn dei "Cursive", membri di "The Good Life" e "Postal Service", persino Maria Taylor delle "Azure Ray"), si proietti tutto alla creazione del pop da camera perfetto, qualcosa intriso di lirismo e melodie ossessive e depresse, il tutto in un'orgia di urla e assalti sonici, lamenti sussurrati e battiti sintetici. E' il folk che presta il cuore al rock e se ne innamora ("We are nowhere and it's now"), è l'alt.country di "Poison Oak" che diventa splendidamente retrò in "Road to Joy", coi suoi spartiti di cimbali, fiati e tappeti di piano. E' la voce femminile che rincorre l'amore in blues spastici ("Landlocked Blues"), è il blues stesso che abbandona ogni frenesia e si fa dolorosa litania ("First Day Of My Life"). E' il primitivo terrore di "At The Bottom Of Everything", colle sue percussioni furiose.
Nel secondo dischetto l'impressione che si ha è invero più debole, tra richiami meno ("Gold Mine Gutter") o più marcati ("Ship in a Bottle") a quell'elettonica che corteggia le chitarre - cosa alquanto di moda in questi ultimi anni. Poco di eclatante (probabilmente una "Take It Easy" rabbiosa e scabra, il lavoro di batteria di "Gold Mine Gutter", le maracas affogate nei beat di "Arc Of Time"), il resto onesto lavoro di apprendistato: d'altronde è materia che il fanciullo deve ancora assimilare per bene.
A noi non resta che attendere il prossimo capolavoro (sintetico, va da sè) che "Digital Ash In A Digital Urn" ci ha dato prematura avvisaglia, e nel frattempo consolarci con la buona vecchia maniera che tante volte ci ha fatto innamorare, e di cui volentieri prestiamo il cuore anche ora che gira "I'm Wide Awake, It's Morning".
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