Le febbri che si prendono poco prima dei vent'anni, tra liceo ed università, quando i cambiamenti si leggono nell'improvvisa repulsione verso la vecchia carta da parati che non avevi mai considerato; gli specchi della casa dei tuoi che sembrano scurirsi di macchie opache mentre l'ennesimo giorno ti cade alle spalle, nel riquadro della finestra, e il calendario si sfoglia con un silenzio agghiacciante. Questi i simbolici rimandi di "Fevers And Mirrors", il lavoro che Conor Oberst, alias Bright Eyes, registra negli ultimi mesi del 1999 con i fedeli compagni della Saddle Creek. Lui ha diciannove anni, già un disco e una miriade di materiale sparso alle spalle, e qui catalizza la propria attenzione sul tempo che passa, sugli oggetti della camera, su una Omaha sciroccosa, col cielo stinto e le facce di sempre. Su questa inquietante mitologia domestica è costruito, con coerenza da artista navigato, l'album più misteriosamente seducente del giovane americano.

La voce tremula e spesso dissonante di Oberst sembra quella di un turbato convalescente che gira a piedi scalzi per le stanze della propria casa, tra bambole di porcellana, carillon, specchi che riflettono maschere, credenze di tarli, ricordi che assediano i cassetti e le cose. Le chitarre, già di per sé malaticce e polverose, vengono avvelenate da organetti, come nell'ipnotica "The Calendar Hung Itself...", retta da un ritmo vorticoso e sporco, o in "A Scale, A Mirror And Those Indifferent Clocks", che a una prima parte di folk lo-fi tipicamente oberstiano ne contrappone una seconda fatta di flauto e sonorità più mature, che anticipano le mosse orchestrali più recenti.

Il disco è claustrofobico, attossicato: "Arienette" spicca per una tetra atmosfera sospesa a metà tra l'inferno dantesco e le brughiere caliginose scozzesi, mentre "Sunrise, Sunset" mima perfettamente nel ritmo e nell'arpeggio che procedono a saliscendi il continuo e ripetitivo tragitto del sole e dei giorni. L'aria di Omaha si fa stantia, sa di naftalina. A nulla serve il ritornello sfregato da un'elettrica rabbiosa, a nulla il flauto che nel finale anestetizza il ripudio della quotidianità attraverso una melodia elegiaca, che fa tornare in mente la ragazza del paese amata da tempo.

Non mancano momenti più tradizionalmente folk, come in "Haligh, Haligh, A Lie, Haligh", tra i pezzi melodicamente più catchy, o "Something Vague", che propone un addolcimento del clima, con flauto e fisarmonica. Da segnalare "An Attempt To Tip The Scales", che si chiude con una lunga intervista ad Oberst: tra battute e informazioni tecniche, viene anche suggerita una chiave interpretativa per alcuni simboli del disco.

Proprio in questo sta l'aspetto più apprezzabile di "Fevers And Mirrors": il suo essere dotato di un timbro ben preciso non solo musicalmente, ma anche da un punto di vista concettuale. E di concept album verrebbe quasi da parlare, sotto il segno di un folk cupo, ombroso, asfittico, quasi decadente, con Bright Eyes che canta un nuovo (contemporaneo) addio all'adolescenza, riuscendoci senza banalità, oltre che col consueto talento compositivo.

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