Conor Oberst è un ragazzo del Nebraska che scoprì, pochi anni fa, di avere un diavolo in corpo.
Ora, io credo che col diavolo il ragazzo non ebbe vita facile, e quello sempre li rimase, a bruciargli da dentro. Che col diavolo si possa scendere a patti, però, e noto a tutti, e questo Conor fece.
Dal nemico di Dio egli ricevette il talento, un fiume in piena di visioni epilettiche, chitarre sussurrate o violentate, torrenti di parole. E come un indemoniato diede corpo e vita alle canzoni, insomma: questo ragazzo avrà 23 anni ma per la miseria, quanto ha vissuto.
"Lifted" si avvale come al solito di una pregevolissima grafica, a guisa di libro antico (ricordiamo lo splendido specchio del lavoro precedente, metafora del "tutto ciò che vedi è sempre ciò che sei").
Non è il capolavoro "Fevers and Mirrors", d’accordo, ancora irraggiungibile, ma conserva tutta quella potenza e delicatezza che contrassegnano il talento visionario di Oberst. Forse il dono della prolissità ha rotto gli argini e a volte sembra di affogare nel fiume di parole.
Ma "Lover, I don’t have to love" è un gioiello che andrebbe diffuso in stereofonia mondiale, puro geniale strazio d’amore; "Bowl of Oranges" e "Waste of pain" sono poesia pura, e il fanciullo sembra anche aver preso confidenza con l’orchestra.
Non potrà che crescere, e, intanto, non possiamo che cominciare ad apprezzare la mancanza di grandi "castronerie", nel senso amorevole del termine: ove nel primo dischetto venivano piazzati 20 minuti di chitarra in distorsione e nel secondo una paranoica intervista a se stesso (!), ora si può finalmente godere la fine del lavoro fino alla fine dell’ultima canzone.
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