Nel 1984 molte cose stavano cambiando nella scena metal internazionale. Del braciere chiamato NWOBHM, sopravvivevano pochi e (giustamente) ultracelebrati tizzoni ardenti. Delle decine di gruppi-meteora che avevano costituito l’ossatura (ma anche una componente essenziale del fascino) del movimento, non tutti si erano dimostrati in grado di superare lo scoglio del secondo (se non del primo) disco. L’Inghilterra, inevitabilmente, vedeva il proprio primato di patria della borchia appannarsi ed indebolirsi e si attaccava con fierezza a quei pochi, grandi nomi che –sperava- le avrebbero comunque garantito prestigio e rispetto.
Dall’altra parte dell’oceano, però, la tendenza conduceva alla ricerca di un sound maggiormente aggressivo, decisamente più veloce, in grado di riscrivere, esasperandoli, i limiti sonori a suo tempo dettati dalla Nuova Ondata. Di lì a pochi mesi, avrebbero spadroneggiato il thrash Bay Area e il tipico U.S. Power, finendo, inevitabilmente (anche se involontariamente), per rendere “datato” e “sorpassato” quanto in precedenza prodotto dai maestri della terra di Sua Maestà.
Insomma: nel 1984, pubblicare un disco dalle forti tinte NWOBHM, e per giunta negli States, era poco meno che un suicidio discografico.
“Into Battle”, disco d’esordio per il terzetto di San Francisco, esce nel 1984 ed è un disco dalle fortissime tinte NWOBHM. Profuma intensamente di Iron Maiden DiAnnosi, rimanda alle fragranze più decise degli Angel Witch e, anche se alla lontana, ha un vago retrogusto di Motorhead (senza contare le evidenti somiglianze con i contemporanei – e grandissimi – Omen).
Eppure basta un ascolto anche superficiale per fugare ogni dubbio circa l’originalità, ma soprattutto la qualità, della proposta musicale contenuta in questo disco.
Quella dei Brocas Helm (nome di un particolare tipo di elmo da cavalleria), infatti, è una creatività oggettivamente impressionante, stupefacente per ricchezza di spunti, complessità delle composizioni e degli arrangiamenti. Un po' come succedeva nei ben più noti Manilla Road, è la stessa “forma canzone” a non bastare.
Anche qui è percepibile una verve creativa rara e travolgente. Anche qui l’assolo (in alcuni episodi si direbbe quasi “l’improvvisazione”) non è passaggio obbligato, semplice occasione per sfoggiare una qualche abilità chitarristica, ma apice e massima espressione delle capacità compositive della band.
Diversamente da quanto avveniva in casa Shelton, però, non è solo la chitarra (che comunque la fa da padrona, sentasi per tutti l’assolo sciogli plettro della scheggia impazzita “Here To Rock”) a rifiutare le redini del metal tradizionale: ogni strumento sembra letteralmente preda di una furia compositiva raramente ascoltata, di una sorta di urgenza di sfogare il proprio estro, dando vita a deliri assolistici e funambolismi strumentali, commistione di melodia, groove e di un pizzico (a dir la verità un bel po’…) di sboroneria, frutto di un approccio quasi “settantiano” nel songwriting (basti sentire, a tal proposito, l’incipit di “Into The Ithilstone”, o il semiplagio a "Stormbringer" dei Deep Purple in "Beneath A Haunted Moon").
Una sezione ritmica stupefacente, al limite dell’invasivo, impressionante per l’incapacità di adagiarsi sulla soluzione più lineare, quasi disorientante quando il basso di James Schumacher sembra fisicamente farsi largo tra gli altri strumenti, reclamando il proprio ruolo di primo attore, per tuffarsi in uno dei tanti monologhi bassistici che costellano il disco (come nella tiratissima title track) o per imporsi come chiave di volta dell’intero brano (come nella già citata “Beneath A Haunted Moon”).
Quello dei Brocas Helm finisce, quindi, per essere un eccellente epic metal, atipico forse, ma incentrato più sulle atmosfere e sulle tematiche (grazie anche ai soventi inserimenti di effetti sonori quali cavalcate, casino da campo di battaglia..), più che sugli orpelli tipo cori, controcori, draghi sulle mutandine etc etc… Il risultato complessivo, va detto, è ottimo, ma non perfetto.
In primo luogo, a comprometterne la qualità vi è la produzione. Vergognosa e imbarazzante. Squallida e oscena. Non è semplicemente scarsa:…è inesistente. In molte occasioni solo con difficoltà si riesce a capire esattamente cosa i nostri stiano suonando, in altrettante, la voce finisce totalmente mortificata dagli strumenti.
Proprio il cantato, poi, è il secondo punto debole del disco. A suo tempo avevo definito Mark Shelton una specie di Lemmy col raffreddore. Beh… in questo caso si è aggiunta pure la raucedine. Se il timbro nasale del leader dei Manilla Road si poteva salvare esaltandone l’originalità e la teatralità, in questo caso ben più arduo sarebbe il compito di chi volesse tessere le lodi della voce del buon Bobbie "Dark Rider" Wright.
Non mancano certo (ed è il minimo sindacale…) la giusta partecipazione, il pathos e l’indispensabile aggressività. A mancare (e pressoché del tutto) è, invece, l’aspetto tecnico. La voce di Wright è roca, strozzata, totalmente incapace di raggiungere anche solo discrete colline vocali… e la produzione ridicola non fa che peggiorare le cose.
Se a ciò si aggiungono l’assoluta incoerenza di questo disco con i tempi e i luoghi in cui ha visto la luce, gli immancabili scazzi con l’etichetta (unica colpevole, tra l’altro, dell’imbarazzante copertina) e la difficoltà, sotto alcuni aspetti, della proposta musicale, risulta ben facile comprendere lo scarsissimo successo di cui godette “Into Battle” (destino tra l’altro condiviso da altrettanti capolavori del genere e del periodo, su tutti “King Of The Dead” e “Battle Cry”).
Scaricati dalla First Strike, i nostri ci misero ben quattro anni a ripresentarsi sulle scene col più che buono e autoprodotto “Black Death” (‘88), ennesima prova di quanto una registrazione malsana e delirante possa inficiare irrimediabilmente un grande disco.
Carico i commenti... con calma