Se vedi il caro Brock per la strada giri le terga: l'amico è ciò che più si avvicina allo stereotipo del brutto ceffo, completo di tatuaggi in faccia, arcate sopraccigliari marcate e sguardo vuoto da ciotola di plastica, a real thug. Poi però è un dj gattaro malinconico, si sa com'è la vita. La parabola artistica del Van Wey è anch'essa così, (apparentemente) ossimorica: negli ultimi 10 anni ha pubblicato più di 30 album, la maggior parte sotto lo pseudonimo bvdub, (una frequenza che credo susciterebbe ammirazione persino nei grandi incontinenti, come Zappa o Muslimgauze), una cifra tanto alta da rendere davvero immediato il pregiudizio principe in questi casi, vale a dire "ma non è che almeno la metà di questi dischi non sono poi così imperdibili, anzi forse il ceffo non riesce nemmeno in uno di questi a creare un prodotto coerente, valido e originale se non a sprazzi?"; aggiungiamo il fatto che bvdub significa ambient, al massimo dub techno molto ariosa e dilatata, e si sa che di progetti sospettosamente prolifici nel genere se ne contano eccome. Non sostengo che tutti i dischi di Brock siano belli, anzi la maggior parte sono evitabili; si possono però dividere i suoi lavori in due gruppi, gli album standard e gli album topici, dove la musica dell'americano accoglie nuovi elementi e che sono sempre migliori, più sentiti degli altri, oltre che belli dall'inizio alla fine. È davvero così: o sono tutte inutili, le tracce di un suo disco, o sembrano tutte uscite di getto dallo stesso stato d'animo.

Questo è decisamente uno dei dischi che ha imbroccato. Dal 2010 cominciano a uscire i dischi artici di bvdub, e questo è forse il migliore di essi, insieme al primo della "serie", The Art of Dying Alone (il titolo parla da sé). Se si mette su un disco di bvdub si fa sul serio, per capirlo è sufficiente l'attacco della prima traccia: partirà un lento risucchio verso il cielo terso di una terra ghiacciata, poche note che lentamente si arrampicano le une sulle altre per trasportarci così in alto da cancellare ogni vertigine. Il bello dell'ambient di bvdub è che dietro al muro di suoni, se si ascolta attentamente, è possibile percepire una vibrazione, un battito amico, uno spirito proveniente dal suo passato di dj, diciamo un beat mascherato che mette in moto il pezzo evitando l'effetto nuvola statica che tanto ambient dà: la velocità è quella giusta per una grande planata che attraversa distanze contraddistinte da colori diversi. Questo disco è vario, infatti, al contrario dell'album standard che fa Brock: campioni di chitarra, lievi tocchi di arco, giochi d'effetti, pause, ipnotizzanti "soli" di synth, volate di pianoforte - la lunghezza del disco mette a frutto la varietà delle sezioni dei brani. Molto bello approdare dopo minuti e minuti di ascesa su pad a una vetta immacolata dove si aggira qualche solitaria nota che disegna molto lentamente una melodia che accelerata potrebbe fare la fortuna di qualche singolo, e invece qui è stiracchiata dall'immensa atmosfera malinconica che pervade il disco per suscitare sensazioni di isolamento e raccoglimento, davvero ineludibili durante l'ascolto. Non si può avere compagnia qui.

Ehi, un secondo. Una specie di beat, melodie... è chiaro ciò che sta facendo bvdub. Usa gli strumenti dell'house, della techno, diciamo dell'E/IDM pure, insomma dei generi di elettronica che ambient non sono per fare ambient. Ecco perché suona così diverso dai soliti calmissimi dischi che si sentono solitamente. Ma sono i sample vocali a far fare all'album il salto di qualità. La migliore portata è un gruppo di inserti vocali ispiratissimi che personalizzano l'ambient, dandogli una consistenza più umana. Fraseggi che sarebbero pop diventano ermetiche profezie in una lingua mezza dimenticata. Le voci, soprattutto femminili, si adornano di connotati angelici (leggi: molto eco e riverbero) per discendere dall'alto sui nostri tonsurati e devotissimi capi mentre percorriamo la mulattiera per un qualche eremo glaciale. È davvero come un'epifania da udire ad occhi chiusi stesi sul letto o persi nel dormiveglia, basta arrivare oltre la metà di Can't Go Home Without You, ad esempio, per un brivido profondo. Musica bella da ascoltare, esteticamente piacevole, sconfinatamente fredda ma mai inospitale, anzi è come vedere la neve fioccare al di là del vetro e più avanti un baratro bianco, ma essere bene avvolti in una spessa coperta che scalda l'unico individuo rimasto sulla faccia della terra. Senza responsabilità né speranze, in una stasi, perfettamente in equilibrio tra pace e disperazione.

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