Sono di parte, i Broken Social Scene furono i miei sodomizzatori, iniziatori alla scoperta di musica fatta con e per trasmettere passione. In questo senso il gruppo canadese, pioniere del formato famiglia allargata (minimo una decina a seconda dei periodi), ha saputo evocare i più reconditi impulsi della fantasia attraverso melodie condite da un’innovativa amalgama di rock alternativo, elettronica e pop. Un suono con cui inevitabilmente faccio l’amore.
Cavalcando la scena indie nel suo apice, quando il tratto distintivo di un indie-kid era ancora vestirsi a righine e sentirsi un pelo snob, quei primi anni del nuovo millennio li hanno collocati nella sfera degli intoccabili dell’alternative rock. Molti gruppi sono sorti sulla scia del loro successo, emulandoli (o provandoci) con più o meno successo. Sta di fatto che non siano molti i gruppi con una simile perspicacia compositiva ed un carattere così eterogeneo.

Questo loro atteso quarto lavoro ufficiale arriva dopo una pausa durata più di cinque anni dall’omonimo album, durante i quali però i nordamericani non sono certo rimasti con le mani in mano. Il primo chitarrista Andrew Whiteman fa in tempo a pubblicare un paio di dischi con la sua creatura ibrida: gli Apostle of Hustle. Jason Collet pubblica anche lui una manciata di album. Nel mentre gli stessi Broken social scene pubblicano (e suonano) due album presentati come progetti solisti: il primo di Kevin Drew uscito nel 2007; il secondo di Brendam Canning pubblicato nel 2008. Ciò dimostra come il brillante flusso di idee del gruppo non sia mai cessato. Col passare degli anni qualcosa cambia, è inevitabile, ci accorgiamo allora di come quest’ultima fatica della band canadese abbia davvero poco della patina lo-fi che avvolgeva i loro primi lavori, facendo inoltre venire meno l’imprevedibilità legata ai vuoti strutturali delle loro passate composizioni. Pare infatti che i ragazzi (“solamente” sette in quest’occasione) abbiano scoperto il mixaggio, ciò non ha intaccato minimamente il prodotto finito ma l’ha reso più accessibile ed immediato che mai.

“Siamo tornati brutto schifoso mondo!” sembrano voler gridare i canadesi nell’apertura imperiosa di “World Sick”, equipaggiata con un ritornello che tira giù le pareti (il contributo del buon Justin Peroff alla batteria è determinante in questo senso). Riconosciamo subito le chitarre, rimaste le solite, mai banali: squittiscono in leggeri delay, fremono sotto overdrive o ci scrociano addosso accordi distorti. Si prosegue tra cavalcate bucoliche, gemme elettro-pop e l’art rock classico dei bss, dove labile diviene il confine tra melodia e sentimento. C’è un simpatico botta e risposta compositivo fra Whiteman con “Art House Director” e lo sbilenco hip-hop di “Ungrateful Little Father” targato Drew. “Romance to The Grave” poi è un picco assoluto della band. L’intro onirico fa da preludio ad un pop lineare e struggente, dove un piano, protagonista e libero di agire, stende un manto sul quale sguazzano gli archetti dei violini. Il buon Peroff trova come al solito una ritmica fenomenale che cambia pelle alla canzone, la botta e risposta dei cori con il cantato fanno il resto. Ma non basta, la band non scorda la sua anima giocosa, non si prendono mai troppo sul serio questi artisti facendocelo intuire col miglior saluto possibile, quello di “Water in Hell”, brano che c’invita ad urlare in falsetto tutta l’ignoranza che distingue il genere umano, perché, per quanto ne sappiamo, c’è dell’acqua all’inferno.

Mi ci tuffo volentieri allora, bentornati Broken Social Scene.

Carico i commenti...  con calma