Chitarrista sopraffino, compositore infaticabile, liricista intenso sia politicamente che socialmente che sentimentalmente, persona di una gentilezza, disponibilità ed umiltà disarmanti, vero mito nel suo paese ma di popolarità assai circoscritta da questa parte del mondo (il che non guasta per chi di noi gli è vicino e può godere così del sottile piacere del gioiello quasi nascosto...), Bruce Cockburn da Ottawa è uno dei miei miti assoluti, semplicemente il mio cantautore canadese preferito (Mitchell, Young e Cohen compresi, oh yes).
Se madre natura lo avesse fornito anche di una voce più brillante e importante ed il suo songwriting, squisito ma costantemente intimista e raccolto, avesse escogitato pure una componente un minimo sfarzosa e spettacolare, atta a conquistare anche la massa di ascoltatori più epidermica e distratta, saremmo alla perfezione. Ma c'è di che accontentarsi (eufemismo), scorrendo la trentina scarsa di album che costellano la carriera di questo grand'uomo nordamericano, che mosse i primi incerti passi sin dall'inizio dei settanta, migliorandosi in un lampo ed evolvendosi nel tempo strumentalmente e concettualmente, sviluppando i propri diversi aspetti ed interessi musicali, sociali e sentimentali. Tanto da ritrovarsi ora ad invecchiare alla stragrande, con indomita persistenza qualitativa nella sua produzione, dono riservato ai modesti ed ai giusti, incapaci di specchiarsi nel proprio talento e andare inevitabilmente fuori giri dopo i primi grossi riscontri.
L'effetto che fa l'ascolto di quest'opera ancora recente (2003) non è dissimile, almeno alle mie orecchie assuefatte, a quello di tante altre occasioni: si ha come prima sensazione quella di essere alla presenza del classico disco di Cockburn, magari più acustico del solito, reso un filo monotono dal suo stile vocale pacato e malinconico. Poi, col progredire degli ascolti, vengono fuori i brani ad uno ad uno, come funghi nel sottobosco e per quasi ciascuno di essi si mettono a fuoco le vere e proprie magie, le imperdibili atmosfere o passaggi vocali e strumentali di classe cristallina che li nobilitano.
Mi riferisco ad esempio all'assolo di chitarra acustica d'alta scuola sulla swingante "Trickle Down", per non parlare del delizioso, ricercato e impegnativo cantato jazz che fa di "Everywhere Dance" una prelibatezza sonora ed il secondo momento più notevole dell'album. Il primo di questi essendo la verbosa canzone che dà il titolo alla raccolta, nove minuti abbondanti di delirante monologo parlato di Bruce, circondato da un pout-pourry straniante di suoni sintetici e reali (favolosa qui l'armonica di Gregoire Maret) in grado di dare incredibile forza alle immagini da lui evocate nel testo. Solo un paio di volte, a metà ed alla fine del brano, avviene la liberazione da tale claustrofobico scenario, con il dispiegarsi di un ritornello dall'acuto e consolatorio senso di ricovero, con la voce di Bruce armonizzata con quella della grande cantante americana Emmylou Harris.
Ed ancora, sempre a proposito di momenti d'alta scuola e/o di superiore lirismo disseminati nel disco, bisogna annoverare l'ardita melodia vocale che s'inerpica per quasi due ottave a disegnare le strofe di "Put It In Your Heart", nonché l'arrembante fingerpicking che spinge con maestria e sentimento la tesa "Wait No More", e continuare col poeticissimo testo folk-rappato di "Letters from Cambodia", devastante come l'argomento che tratta: le mine anti-uomo. "Celestial Horses" rappresenta invece il blues alla maniera di Bruce Cockburn, spalleggiato ai cori dal collega Jackson Browne (sicuramente l'artista a lui più simile, per timbro e stile vocale, sensibilità poetica, attivismo politico e sociale ecc.).
L'album si conclude con un paio di episodi più tradizionali e "campagnoli", meno contaminati dagli innesti urbani (rap, loops, jazz, elettronica...) che, usati nell'opera con una certa continuità ma sempre con moderazione e gusto, attualizzano e rinfrescano la musica senza comprometterne il genere di riferimento (folk-rock americano, e dei migliori). Specialmente la finale "Messenger Wind", quasi solamente per voce e chitarra acustica, pizzicata dal nostro col suo delizioso e virtuoso stile, costituisce un ottimo arrivederci (anzi, a risentirci) per quest'artista bravissimo, modesto e di grande classe; in una parola: un giusto.
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