Camminai fino a che la sirena dell’altimetro non mi assicurò che la quota indicatami era stata raggiunta. Il ticchettìo della bussola mi aiutò, individuati i punti di riferimento, a localizzare il sito. Misi in funzione l’ecografo, la cui sinusoide quasi marina confermò le deduzioni. Impugnai l’asta del rilevatore metallico e mi fermai quando il suo brusìo si alzò al volume di un ruggito.
Ad ogni mio passo, il clic delle minilampade inserite nei tacchi delle scarpe disegnava la coreografia dello scavo, mentre il bip, che ad ogni scansione mi scopriva sullo schermo, assicurava la base che l’operazione procedeva. Era notte, e l’alta tensione che correva lungo cavi poco distanti intonava richiami come di coyote al plenilunio. Il cicalino del laser col quale m’aiutavo nella localizzazione della civiltà sepolta si fece frenetico. Il luogo era deserto e il silenzio perfetto, eppure tutte le mie macchine, in coro, denunciavano la presenza umana. Le macchine hanno un loro modo ineffabile, con i loro mugugni, i sibili e i ritmi rotti, di rivelare la presenza dell’uomo, dalla logica della loro architettura alle espressioni umanoidi del loro funzionamento. I trilli, i mugolii, gli scoppi, le loro tensioni e i cedimenti sono fin troppo simili ai nostri: noi, creatori, le abbiamo fatte a nostra immagine e somiglianza. Ci rispecchiano persino nelle loro inspiegabili bizzarrie. Alle loro espressioni idiosincratiche corrisponde, da noi, un sentimento, un’impressione, uno stato d'animo.
E dopo essere balzato dalla sedia verso lo stereo per vedere se l’amplificatore stesse bruciando, dato il dolore intenso espresso dal silicio e dai circuiti, e aver realizzato che era la seconda, preoccupante sezione di “Ab ovo”, mi sono reso conto che le amiamo, le nostre macchine. Quel lancinante barrito sintetico era musica, incisa su cd come la musica che trasmettono alla radio. Musica perché la voce dell’ amato è musica. Musica. Con la differenza che, mentre la musica della radio mi obnubila all’istante, questa, di musica, mi presenta, nel suo collage di voci incongrue, le espressioni e i ritmi dei luoghi interiori che, per volontà o per forza, frequento.
Conosco bene i brividi occasionali della curiosità (“Slow no (The)”), il ronzare fisso di un grugno poco propenso (“OGKR”) e la balordaggine di una sera ubriaca (“Emission curve”). Riconosco il brusìo dei campi della tristezza (“Myomacy”), il ritmo dell’ossessione che s’accende (“Ab ovo”) e la stanza quadrata senza finestre dai muri sfregiati dalla furia delle mie cornate. Le macchine ci conoscono, ci inseguono anche a distanza di millenni. Grazie ai bip e ai bop dell’attrezzatura, oltre che al lavoro di pala e piccone, le tracce dell’ uomo mi riemergevano sotto le mani.
Il reperto più interessante si rivelò essere un congegno oscillante ad acqua. Era di bambù e veniva usato per produrre un suono periodico che si sposava ai rumori della natura. Era un artefatto sonoro con cui l’uomo di tremila anni fa aveva stabilito un rapporto con il circondario.
Bruce Gilbert ne sarebbe andato pazzo.
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