Una foto in bianco e nero scattata in una strada di New York, i muri scorticati di qualche palazzaccio ed i vapori provenienti dai tombini.

Era l’epoca di The River. Ero un bambino e le storie di quel disco segnarono la mia vita. Una grossa cazzata? Forse. Può un disco incidere la vita di qualcuno? Una domanda che mi sono sempre fatto ma a cui non ho saputo dare risposta. L’animo romantico dell’adolescente sognatore che fui, suggerirebbe di si, ma oggi, inquadrato, impostato, inserito, avviato, integrato, direi di no. Un disco non cambia nulla. Ma che possono tre canzoni contro la Vita? Però, ogni tanto, l’integrazione la mando volentieri a puttane.

E così succede che stacco tutto, saluto la famiglia e parto con due panini al prosciutto ed una bottiglietta di Powerade per constatare se il mio sogno di bambino era reale e poteva davvero salvarmi l’anima e cambiare il corso degli eventi.

Mi ritrovo con il mio zaino in spalla, insieme ad un gruppo di ragazzi spiritati, vecchi-giovani ed appariscenti donne di mezz’età stipati dentro un pulmino per Firenze. Ma il Boss è quello in bianco e nero, barba incolta, viso magro, sguardo intenso su sfondo newyorchese o è il vangatore camionista di Debaser? Springsteen è un grossolano interprete di becera musica rock o l’ultimo romantico rocker a’ la Elvis? E’ l’interprete vero e schietto cantore dei diseredati, perdenti e fuorilegge, oppure uno squallido opportunista miliardario

Queste domande mi frullano in testa mentre aspetto appollaiato ad un metro dal pit tra due grassi americani, un hippie ed una famiglia con bimbo piccolo sotto un cielo grigio e ventoso. Le ore passano lente in attesa del concerto e mi servono per rivivere la mia storia con Springsteen che si può riassumere in: romanticismo/sogni/gloria anni ’70, esplosione/muscoli/successo anni ’80, introspezione/famiglia/impegno anni’90, viale del tramonto/rinascita anni 2000. Il tempo passa veloce e silenzioso come le nuvole nere sopra di me e rifletto.

Scarto un panino ma non ho fame, lo stomaco si è chiuso. Sta per arrivare il momento e scattiamo  tutti in avanti per cercare di stare vicini alla barra nera di metallo che delimita il pit. Il vento porta profumo di pioggia. Davanti a me il colossale palco nero sembra voler ingoiare tutto il pubblico che riempie ogni spazio dello stadio. Incrocio lo sguardo da duro di uno della security e poi gli occhi in trance di centinaia di fan. Le note di Morricone, i musicisti di una vita, Bruce. E la pioggia che inizia a cadere leggera, quasi vaporizzata.

Ecco, la recensione dovrebbe finire qui.

Lo so, lo so è la recensione del concerto di Springsteen ma per me è difficile. 

E’ difficile perché l’inquadrato, impostato, inserito, avviato, integrato uomo qualunque si è visto sbattere in faccia anni di vita. Bruce è un istrione, ha una voce potente, è commovente, coinvolgente, straripante ma mi rendo conto che quello che mi squarcia sono le sue canzoni. La pioggia aumenta e lava via tutto. Fradicio e sorridente ascolto una forsennata maratona rock supportata dai reduci di quei ragazzi su sfondo newyorchese. In mezzo trovano spazio e luce anche una immensa Burning love di Elvis, una grandissima Trapped di Jimmy Cliff ed una classica Who’ll stop the rain dei CCR. Ma sono Badlands, Prove it all night, Born to Run, Hungry Heart, Seven Nights to Rock, Dancing in the Dark, Tenth Avenue Freeze-Out che mi esaltano ma nello stesso tempo sembrano uscire da me stesso. Il concerto inizia alle 20:28 e finisce alle 23:56.

Sulle note di Backstreets realizzo che i dischi di Bruce hanno toccato qualche filo scoperto. Hanno cambiato impercettibilmente la mia esistenza, poco, di una virgola ma adesso sono sicuro che l’hanno cambiata. Un bambino canta con Bruce sul palco e penso: sono io quel bambino. Adesso sono io.

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