Mi viene da sorridere, talvolta, ripensando a certi dischi, estremamente legati al loro contesto storico, tanto da risultare già stantii qualche mese dopo la loro uscita. Magari non inascoltabili (beh, per alcuni è pure così), essenzialmente ridicoli, sì. Uno di questi è certamente “Darkness On The Edge Of Town” che è il quarto album in carriera per Springsteen. Io dico che questo disco è tedioso, semplice, ruffiano e senza idee, che in più ha avuto, per una qualche strana legge di mercato, un successo enorme e immeritato.
Non voglio attirarmi le ire del mondo musicale intero (succederà lo stesso, lo so), ma leggendo certe recensioni osannanti mi sale il dubbio di essere in errore, poi riascolto alcuni passaggi (di più è umanamente improponibile) ed ecco la conferma, e anche i miei più reconditi dubbi svaniscono: il disco in questione è una vera porcata. Il succo del disco si riassume in brani che ruotano attorno ad un banalissimo accordo, massimo due. Batteristi che dopo il secondo quadratissimo riff ne hanno (certamente anche loro stessi) le scatole piene del loro bum – ta – bum – ciff! Mi immagino Max Weinberg, che maledice, ad ogni quarta battuta, quell’artista che è riuscito a scrivere cotanta vaccata e ha pure avuto il coraggio di proporgliela, a lui che è un fior di turnista. E sarà lì a registrare, tra le sue pareti di plexiglass, facendo finta di divertirsi e maledicendo l’istante in cui ha accettato l’incarico, ma: “La famiglia come la campo?” (citazione colta).
C’è poi quell’atteggiamento aggressivo, di Springsteen intendo, quello del rocker navigato che può consentirsi di schitarrare riff, che se andiamo a vedere risultano insulsi e pedestri e ricalcanti altri riff sentiti migliaia di volte. D’accordo, mi si riprenderà per parlare di anima, di sentimento, di liriche belle come poesie, dai risvolti impegnati e sociali, di impatto musicale, del sudore di un rocker, ma mi chiedo quanti, da noi in Italia, capiscano quei testi, riescano ad apprezzare risvolti testuali prettamente americani. Allo stesso modo mi chiedo che sentimento possa nascere da musica da asilo. Insomma, il rockaccione, questo rockaccione che dissemina esempi in ogni angolo, è roba sconsideratamente insignificante.
Parliamo un po’ dei contenuti, partendo dall’insulsa ballata che dà il titolo al disco. Uguale dall’inizio alla fine, non una scossa, non un brivido, persino il testo liquidabile in quattro banali parole. Non andiamo meglio con il rock rotolante di “Badlands”, solo parzialmente salvata dall’egregio lavoro di Bittan, ma che muore decisamente con quel ridicolo e infantile ritornello.Morta già dalle prime note pure “The Promise Land”, grazie a quella fottuta armonica a bocca che gli caccerei su per il naso. C’è chi mi parla di drammaticità, di intensità, di brani esaltanti dello splendore di brani come “Racing In The Street”, anche questo solo parzialmente elevato dal tocco di Roy Bittan, mi è totalmente oscuro cosa ci possa essere di splendente in un brano cantilenato, noioso e scopiazzato da cose precedenti di Jackson Brown.
Do atto al “Boss” una cosa essenzialmente: di aver creato una macchina commerciale e di vendita monumentale. Lui l’ha inventata e il pubblico ci è cascato in pieno, questo non me lo spiegherò mai. Alla fine dei discorsi so che non posso dare un voto bassissimo a un lavoro come questo che ha avuto riconoscimento di massa così accentuato, ma quello che è da fare e, soprattutto, da accettare è un suo ridimensionamento: se un disco è sopravvalutato, bisogna accettarlo, e farlo tutti.
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