Può una macchina da guerra come la E street band che ha infuocato i palchi prima d'America e poi quelli di tutto il mondo essere accantonata per poter essere sostituita da altri 4 disgraziati che non avranno alcuna collocazione nella storia del rock? Se ti chiami Bruce Springsteen è possibile. E come sappiamo spesso i geni sono autolesionisti, e questa volta la scelta di cambiare band non è dovuta ad impegni personali di ogni singolo membro e non è nemmeno una scelta collettiva, ma soltanto del leader. Anno di (dis)grazia 1992; Bruce Springsteen torna alla ribalta con del nuovo materiale inedito a 5 anni di distanza da "Tunnel of love". E lo fa in contemporanea con "Lucky town" che insieme a questo "Human touch" vede la luce il 31 marzo 1992. Unico superstite della E street band è il pianista Roy Bittan. Questo album, a dispetto dell'altro, mostra una vena più "populista" e il suono marcatamente radiofonico dell'opera sembra snaturare composizioni pregevoli quali "I wish I were blind", "57 channels (and nothin' on)" e "Soul driver". L'album entra rapidamente in classifica al secondo posto e altrettanto rapidamente ne esce, così da suscitare un deciso calo di vendite (del 66% rispetto alla metà degli anni '80) soprattutto negli Stati Uniti, dove il nome di Springsteen comincia a non godere più della medesima popolarità del decennio precedente. Il fatto di aver trovato una stabilità familiare, in seguito al matrimonio con Patti Scialfa nel 1991, ha effetti ambivalenti sulle nuove composizioni, perché se da una parte l'attuale situazione sentimentale e il velato scetticismo nei confronti del passato consentono a Springsteen di mettersi a nudo e di sviluppare una ricerca personale, d'altro canto quella stessa sensibilità gli fa perdere la tensione emotiva e l'energia tipica dei suoi lavori precedenti, col risultato che i nuovi appaioni privi di adeguata intensità.

I testi come al solito sono sempre ben scritti ma non aggiungono assolutamente niente di rilevante alla carriera del boss, perfino gli episodi migliori non vengono valorizzati al meglio a causa degli arrangiamenti non proprio adeguati. Si passa così da episodi rockeggianti pensati apposta per il palco come "All or nothing at all", canzone che dal punto di vista lirico è soltanto un riempitivo, oppure "The long goodbye" nella quale si narra del nuovo Springsteen che dà l'addio a quello vecchio. La title track rimane la traccia più ispirata dell'album, e non necessariamente si sente la mancanza della E Street band. "Soul driver" e "57 channels (and nothin' on)" avrebbero funzionato a meraviglia in un disco acustico, come la seppur bellissima "With every wish". "Cross my heart" e "Gloria'e eyes" scorrono senza particolari sussulti. Qui troviamo anche le uniche due canzoni di Springsteen le quali musiche sono state scritte a quattro mani insieme al pianista Roy Bittan; ovvero "Roll of the dice" e "Real world". La prima finalmente fa tornare il sorriso grazie alla musica frizzante e il piano ben in evidenza, mentre la seconda è sacrificata da un arrangiamento troppo pomposo. "Man's job" risulta piacevole ma niente di più. Chiudono l'album le due canzoni più odiate del repertorio Springsteeniano: "Real man" che a me personalmente diverte, vuoi per quel sintetizzatore in primo piano o per l'interpretazione vocale forte, che nelle ultime interpretazioni è andata via via diminuendo. E poi l'ultima "Pony boy" ninna nanna tradizionale dedicata al figlio appena nato. Che effetto fa sentire Springsteen cantare una ninna nanna? Chiedetelo a qualsiasi fan e giudicate dalla loro espressione.

Ricordo che questo album, quando lo scoprii mi piacque, ma non avevo ancora fatto i conti con "The river", "Darkness on the edge of town" e "Born to run". Quindi l'impressione è che se non conoscete il boss potreste anche apprezzare questo album. Se non altro lo troverete un album onesto. Se lo amate invece storcerete il naso. Eppure a giudicare dalle outtakes di quel periodo quali "Seven angels", "Leavin'train", "Waitin' on the end of the world" e "30 days out" ci sarebbero state tutte le carte in regola per realizzare un gran bell'album. Ma forse è solo il fascino dell' "outtake". Mi chiedo se lo stesso Springsteen credesse in questo cambio di rotta, poiché nei concerti lo strumento tenuto più alto fu il piano di Roy Bittan. E inevitabilmente nelle platee cominciarono ad intravedersi dei posti vuoti. Fortunatamente questo è il passato. Negli ultimi dieci anni Bruce e la E Street band ci hanno fatto vivere altri momenti indimenticabili.

Alla prossima...

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