“Well sons they search for fathers, but the fathers are all gone” - I figli cercano i padri, ma i padri non ci sono più – così si esprime Bruce nella vecchia, anzi vecchissima, Song for orphans, quasi al volgere della fine dell’album, penultima traccia.
Io credo che qui ci sia la scintilla che ha fatto scoppiare l’ispirazione per questo bellissimo lavoro, a poco più di un anno da un disco tanto bello, quanto coraggioso, come è stato Western Stars .
Dicevo Song for orphans, un pezzo scritto nei primi anni 70, probabilmente 1972, faceva parte di quel tesoretto di canzoni scritte prima del contratto con la Columbia, quando Springsteen era con la Laurel Canyon e si divideva tra rock e musica acustica; questo era all’epoca un pezzo acustico, lontanissimo dal folk-blues di Dylan, probabilmente da questa bozza nacque, nel periodo Columbia, Mary Queen Of Arkansas, che finì nel primo lavoro di Bruce, Greetings from Asbury Park (1973).
Il senso di smarrimento che quel giovane cantautore provava già 49 anni fa, è lo stesso che alberga ancora tra le sue corde spirituali ed artistiche, pervadendo tutto questo nuovo Letter to you.
Qui il brano abbandona la sua natura acustica e diventa una stupenda ballata rock, sospesa tra il miglior Dylan della metà degli anni 60 e lo Springsteen periodo Darkness On The Edge of Town, dalle parti di quella splendida The promise che poi in quel disco capolavoro non finì neanche.
Se qualcuno volesse i connotati musicali di questo disco e della ditta Springsteen & E Street Band, li trova in questo pezzo, come nell’altrettanto vecchio If i was the priest, nato come pezzo pianistico (bellissime le prime versioni dal vivo che risalgono al 1971), diventa nel 2020, una irresistibile ballata rock, tutta chitarra-basso-piano- armonica ed armonizzazioni vocali straordinarie di Steven Van Zandt e Patti Scialfa.
Il senso di smarrimento in questo lavoro è in gran parte dominato dallo spettro della morte o più in generale della fragilità della condizione umana, “One minute you're here, Next minute you're gone”-Un minuto sei qui, il minuto dopo sei andato via – dice nella toccante traccia d’apertura , One minute you're here, gioiello acustico, scarno musicalmente (chitarra e tocchi di piano/tastiera) con una voce ad altissimi livelli di profondità ed espressività, a conferma che quando Springsteen si muove nel territorio acustico dà sfoggio di tutta la sua unicità (e superiorità) artistica.
Questo è forse il pezzo più remissivo del nuovo disco, altrove Springsteen prende per il collo la caducità umana e la percuote a suon di rock, potente, diretto e straordinariamente catartico: ecco, Burnin' Train, un rock n’ roll sparato veloce su binari oscuri da una E Street Band in grandissimo spolvero, con Max Weinberg a farla da padrone con il suo classico rullante; Ghost, con il suo ritmo da marcia, un po’ tribale, dove la chitarra che gioca col basso, a me ha ricordato la ritmica di Born to run (chi lo doveva dire nel duemilaventi !); House Of A Thousand Guitars, più lenta rispetto alle precedenti, ma ugualmente tesa, con un rock meno muscoloso e più nostalgico, “Well it’s all right, yeah it’s all right”- è tutto ok, è tutto ok- dice Bruce finche’ ci sarà una (o mille) chitarre che suoneranno in uno stadio, in un piccolo bar o semplicemente nella stanza di una casa (come non pensare all’odiato lockdown in epoca di Coronavirus); Letter to you, una cavalcata rock scandita dal note “basse” della vecchia Fender di Springsteen, ammaccata come vediamo nelle belle foto interne del libretto, come ammaccata è la sua anima nella lettera scritta con inchiostro e sangue al popolo di coloro che da mezzo secolo seguono le sue opere e la su vita.
Il disco si chiude con I'll See You In My Dreams, un pezzo emozionante, country-rock che a me ha ricordato This hard land: citando Dylan, in uno straordinario, quanto sottovalutato, pezzo di Down in the groove (1988), “For death is not the end”-Perché la morte non è la fine- finche’ ci sarà una band, una vecchia chitarra, sempre quella Fender là, a sostenere il sogno di una vita migliore.
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