Sbronzo ed ebbro di successo, Bruce Springsteen decide di prendersi un momento per riflettere, per pensare, forse per calmierare le proprie gioie e le proprie delusioni.

"Born to run" era già leggenda, e il rock sembrava destinato a dover cambiare, a subire modifiche strutturali sia da un punto di vista musicale sia da un punto di vista di concetto. Sono anni di enormi cambiamenti: la crisi dei Rolling Stones, il successo dei Queen e degli U2, la dance prepotente di Michael Jackson e il linguaggio romantico e giovanile dei Duran Duran. Inutile, avrà pensato Bruce, rifare un secondo "Born to run".

E così, armonica e chitarra, decide di rifugiarsi, per qualche tempo, a pensare e riflettere sui propri errori, sul futuro degli uomini e delle Nazioni, sulla guerra, la pace, la tranquillità e il disfattismo made in Usa. Saluta con la manina la E-Street Band (ma non sarà un addio, più semplicemente un arrivederci), e tenta, ma sempre senza montarsi la testa, di ripercorrere le tappe di vecchi idoli e grandi leggende: Bob Dylan e Woodie Guthrie.
Da questa quasi metafisica introspezione, nasce un album destinato a grandi elogi e poche (spesso irritanti) critiche: "Nebraska". Il Boss lascia da parte il rock, ma non accantona la poesia. Questa volta però, le parole risultano più dure e spigolose: non c'è il vibrante e martellante contorno di chitarre elettriche e batteria, c'è solo una chitarra e un'armonica. Ma ogni brano possiede una propria indelebile autenticità: storie semplici, spesso tragiche, storie comunque vere, di un America che non è solo New York e The Big Dream.

Il tutto, registrato da solo, in casa, con un misero quattro piste quasi pioneristico. C'è chi deve andare su una sedia elettrica e ripensa alla propria vita ("Nebraska"), tutto raccontato in prima persona, in una sorta di pathos partecipativo; c'è la speranza ("Atlantic City") di un futuro forse migliore, un immagine molto chapliniana nel suo essere semplice e rigorosa; c'è la disperazione della disoccupazione ("Johnny 99") e la tragedia che non riesci mai a schivare; c'è l'amicizia e la fratellanza ("Highway Pastrolman") tra un poliziotto e il fratello delinquente; c'è chi spera di vincere alla lotteria e sistemare un pò di cosette ("Used Cars") e chi invece si accorge, troppo tardi, di non aver mai amato la persona che più doveva proteggere, il padre ("My Father's House"); e c'è il brano più inquietante ("Reason to believe"), perchè, chiede Springsteen, nonostante la cattiveria del mondo ancora tanta gente oggi continuare a credere?
Forse la fede è solo un modo per sviare dalla realtà e sperare in un qualcosa di impossibile, o è solo una vecchia tradizione da coltivare in silenzio e senza contradditori. Ma non è tutto qui: anche "Open all night" e "Mansion on the Hill" meriterebbero la lode.

Sicuramente è il disco più atipico di Bruce Springsteen: niente parole dolci, poche certezze, quasi mai affiora un barlume di sicurezza. La speranza c'è, ma spesso è tinta di nero. È, in fondo, una velata, ma tagliente, critica al sistema politico ed economico americano: la disoccupazione e la miseria di vite bruciate tra il dolore e il poter sperare in un futuro migliore, sono lo specchio fedele di uno Stato che, oltre a proclamarsi forte e gagliardo, dovrebbe anche cominciare ad occuparsi di più dei propri (forse) orgogliosi figli a stelle e striscie.
Plagio del primissimo Bob Dylan? No, assolutamente no. Direi più un omaggio, un certo modo di porsi cantando. Forse alla lunga un pò noioso (in fondo le musiche sono abbastanza monotone), ma così freddo e così lucido da apparire, in alcuni punti, addirittura mitologico.

Ma la realtà, spesso, riesce a superare meravigliosamente la fantasia.

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