Gli ultimi mesi di un uomo perennemente alla deriva.
Un film terribilmente oscuro e immerso in una nebbia esistenziale plumbea e senza redenzione finale, con un bianco e nero tagliente e freddo come la canna di una pistola, implacabile come se fosse puntata alle nostre tempie ad attendere per interminabili minuti il dito risolutore sul grilletto.
Si parla, in questo film-documentario, della vita, morte e miracoli dell’uomo-Chet Baker, lontano dalla leggenda e dal mito che incarna ormai da decenni nel mondo della musica jazz (e non solo).
Acclamato (e limitatissimo) trombettista jazz, con molte mogli a seguito, quattro figli, numerose amanti, amici, ammiratori e creditori a non finire. Assolutamente sleale con tutti e tutto ebbe, a dire di molti, SOLO due grandi e veri amori: la musica e l’eroina.
Un documentario-verità quindi che affonda una lama affilata nella personalità oscura, schiva e appartata di un uomo perennemente alla deriva da ogni cosa. Un ritratto spietato e crudo lontano però dalla mitizzazione e dal facile consenso, a tratti quindi fastidioso che descrive un musicista fragile, dai mille difetti che però, grazie anche a questo, ce lo fa sentire più vicino e umano, quasi un fratello maggiore che chiede aiuto.
Tutto opera di Bruce Weber, fotografo di moda con vaghe ambizioni cinematografiche, che seguì gli ultimi mesi della vita di Chet Baker (scomparso nel 1988 cadendo da un albergo di Amsterdam forse in preda all'eroina) omaggiandone la morte con una sorta di film-necrologio di una bellezza estetica davvero eccelsa e dal contenuto profondo e vero fino alle estreme conseguenze.
Il regista si sofferma sul volto di Chet, lo scandaglia come una radiografia dell’anima, ci parla dei suoi lati oscuri con interviste e testimonianze, oltre che al protagonista, alla gente che lo ha conosciuto, i figli, le amanti e tutto il suo universo restituendo attimi di sublime candore grazie a immagini drammaticamente sublimi.
Una lenta discesa verso il degrado fisico e psicologico quindi, di un uomo ormai in balìa di una droga chiamata “esistenza”, un’agonia verso una morte annunciata, dettata dal tempo che sancisce il battito delle cose e che diventa vera ossessione di un artista, in preda a un puerile narcisismo e che si alimenta per buona parte della durata del film (due ore buone), restituendoci un personaggio scomodo e per molti versi “perdente nell’anima”.
Un artista però che ha fatto (suo malgrado) leva su questo aspetto di sé e che, grazie anche alla sua voce esile e “aggrappata a un filo di acerba tristezza” e al suo fraseggio esile, gentile, sempre sul filo dal "frantumarsi in mille rivoli di note "fragili come cristalli", ha saputo elevare la sua condizione di emarginato a stella artistica di prima grandezza, subliminando la sua vita all’arte (ma non viceversa).
Film a dir poco incantevole e davvero commovente per la spietato e sincero ritratto fatto con sincera devozione e infinità umanità.
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