Parlare di un autore come il francese Dumont è complesso e a dir poco impossibile. Un autore talmente radicale da scatenare una divisione netta tra la schiera degli ammiratori con gli occhioni lucidi e i detrattori selvaggi. Il mio stesso professore di regia gli aveva condannato una furbizia paraculo in quello che viene considerato il suo capolavoro, L'Humanité (1999), soprattutto in quel finale aperto che pare messo lì per sopperire una mancanza di idee concrete. E non è l'unico.
Critiche aspre si sono mosse soprattutto che sto per presentarvi. E lo capisco: Dumont è un paraculo vero e proprio.
Non gli interessa raccontare storie, non gli interessa dare emozioni e non gli interessa trasmettere qualcosa.
Il cinema di Dumont si sofferma principalmente sul mezzo cinematografico, sulla materia cinema vera e propria.
"Twentynine Palms" (2003) è il risultato di una sua riflessione che farà rabbrividire i puristi del cinema classico: "Un film non è il risultato di una storia. Un film può essere costituito anche da sole immagini che possono anche essere slegate tra loro."
L'idea è quella di un cinema puro, affine quasi a quel cinema dell'assoluto teorizzato nella Germania prenazista: un cinema privo di referente, finalmente libero da rigide strutture private di senso.
"Twentynine Palms" è il film on-the-road più minimale che voi possiate trovare. Un viaggio ipnotico che è un ritorno alle origini, a quell'animalità primitiva rappresentata da un paesaggio scenografico di rocce, deserti e piccoli motel squallidi.
A muoversi in quest'universo così reale da sembrare surreale e minaccioso all'improvviso c'è una coppia di fidanzati. Una coppia che non parla di niente e non agisce per niente. Discutono in lingue diverse (cosa abbastanza fastidiosa per lo spettatore, soprattutto se conosce bene sia l'inglese che il francese, aggravata da sottotitoli pessimi nell'edizione italiana) e non sono in grado di comprendersi: ridono e subito dopo litigano.
Immersi in un vuoto angosciante, non possono che trovare sfogo in amplessi selvaggi e senz'anima: in una piscina, sulle rocce. Amplessi sregolati, terribilmente fasulli (come fasullo è il loro rapporto contraddittorio) in netto contrasto con la generosa esibizione genitale dei protagonisti, che avvicinerebbe le loro effusioni a realtà certa.
E si procede così, nella penombra del rapporto tra i sessi, prima che il film non prenda una svolta inaspettata e brusca: da dramma umano sulla noia del rapporto tra sessi, diventa improvvisamente un horror. L'orrore umano emerge dall'oscurità inconscia dietro a quei volti glaciali. Quelle auto che viaggiavano nel deserto indisturbate diventano di colpo minacciose e ciò che avviene sembra porre finalmente una questione, un dunque a questa relazione statica. Sembra come se la natura stessa li abbia spinti, con la violenza, a decidersi, ad agire e a cambiare. Anche (e soprattutto) nel male.
Il film sconcerta per questo: quella violenza che pare totalmente gratuita, in verità, è funzionale a ciò che Dumont vuole raccontare (perché, se fai cinema, anche se ammetti il contrario, è ovvio che vuoi esprimerti: nessun artista produce tanto per produrre, altrimenti diventa artigiano. Persino quel motto, art for art's sake, si prefiggeva l'obiettivo di trasmettere bellezza fine a se stessa, ma si parla sempre di trasmettere appunto).
Ma noi siamo talmente abituati a quella noia che affligge i protagonisti inconsapevoli da cogliere quel colpo secco in un finale campato per aria, in un modo furbo per concludere provocatoriamente un film.
Un film che, pur non volendo raccontare apparentemente nulla, riesce a descrivere in modo stilisticamente affascinante temi vecchi (alienazione, noia, spleen ingiustificato e crisi di coppia) ma sempre modernissimi e radicati nel nostro essere e, allo stesso tempo, riflettere sul filmico e sulle sue infinite possibilità.
Qui è dove Dumont gioca con lo spettatore: consapevole di essere un rompicoglioni, pone comunque delle riflessioni interessanti e, alla fine, per quanto mi riguarda questo oggetto misterioso chiamato "Twentynine Palms", dopotutto, mi è rimasto impresso. E mi piace tanto pure.
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