Bruno Lauzi è un grande cantautore e un meraviglioso inteprete. E in entrambi i ruoli per lunghissimo tempo è stato decisamente sottovalutato. Molte possono esserne le ragioni: dalla prestanza certamente non scultorea al non essere allineato politicamente (oggi fa ridere, una volta no) a magari anche altre che non è questo né il tempo né il luogo per indagare. Fatto sta che le sue incredibili capacità di vocalist e le sue ottime d’autore per troppi anni sono state forzatamente relegate a un pubblico di filologi del cantutorato oppure ad appassionati del jazz. Sì, perché in Bruno, come in Tenco e Paoli, pur nell’essenza del cantautorato puro, si sente quel sapore che ha solo il jazz sia nell’impostazione della voce che nell’affrontare armonie e temi e in senso lato nell’intendere l’ampio concetto di canzone d’autore.

In questo meraviglioso, piccolo e grandissimo disco del 2003, Lauzi ci da più d’una lezione. Innanzitutto ci dà una lezione umana grandissima, ovvero la lezione dell’uomo che lotta contro la malattia con le armi fortissime della Volontà e dell’Arte (leggetevi la lettera a Parkinson sul sito ufficiale e capirete). Poi - e per noi, qui, è più importante - ci dà una grandissima lezione musicale. Il disco è, per i protagonisti e per i temi affrontati, una summa del jazz italiano cosiddetto storico. Ovvero di quel jazz sicuramente colonizzato, sicuramente in estasi e soggezione davanti ai grandi americani, ma mai pacchiano o imbarazzante. Insomma: mai patetico. Un pianista, per capirci, come Renato Sellani (presente - eccome ! - nel disco) può aver avuto tutte le scuole che vogliamo (e bisogerebbe dibatterne a lungo…) ma ciò non toglie che il suo pianismo sia perfetto, elegante, fantasioso e mai banale. Poi c’è Gianni Basso… e vale lo stesso discorso appena fatto. Poi c’è lui, Bruno Lauzi, quello per la cui voce nei sessanta si scomodavano Lucio Battisti e Paolo Conte per regalargli brani inediti che diventavano subito grandi classici. C’è quella voce malinconica e divertita, intonatissima e profondamente jazz, nel senso più lato e più bello possibile. I brani sono i alcuni tra i grandi classici della canzone americana (da When I Fall In Love a Sweet Lorraine, da The Nearness Of You a As Time Goes By) più due brani inediti del cantautore piemontes/genovese, ovvero La Nostalgia e Nell’estate del ’66, piacevolemente swinganti, scritti benissimo e perfettamente integrati nell’insieme, a dimostrare, se ce ne fosse bisogno, che il Nostro è un signor Autore, oltre che uno dei migliori interpreti che la grande canzone italiana abbia avuto la fortuna di avere.

Inutile la disamina di ogni singolo brano: tutti sono allo stesso, altissimo, livello. Tutti ben suonati, ben cantati, ben vissuti. L’affiatamento è notevole, quasi i protagonisti non avessero fatto altro che suonare insieme negli ultimi quarant’anni (e per alcuni, effettivamente, è così…). Il disco, naturalmente, è di un’etichetta piccola e coraggiosa (Blue Tower), e, ancor più naturalmente, si fatica non poco a trovare. Ma, datemi retta, è bellissimo. E per molti motivi va comprato, vissuto e ascoltato. Così come Per Bruno Lauzi di Renato Sellani, altro splendido disco, più recente. Ma questa è un’altra recensione. Che verrà, ovviamente.

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