Un dialogo alla pari. È questa la forma moderna del concerto per strumento solista. Un dialogo dove l'orchestra e lo strumentista non devono limitarsi a seguire un canovaccio prefissato, non devono subire passivamente la partitura, ma devono al contrario parlare, accordarsi, discutere, talora scontrarsi, per riuscire a costruire un edificio sonoro sui semplici "suggerimenti" che il compositore sforna come mattoni dalla fornace ardente della propria arte. È questo il fulcro su cui si fondano i tre meravigliosi concerti per oboe ed orchestra di Bruno Maderna. E ad ormai 85 anni dalla nascita, il messaggio del grande compositore veneziano resta più che mai attuale.
Nella splendida esecuzione del grande oboista svizzero Heinz Holliger, accompagnato per l'occasione dalla Cologne Radio Symphony Orchestra diretta da Gary Bertini, questi tre concerti non si limitano a portare all'estremo le capacità virtuosistiche del solista attraverso fraseggi di diabolica difficoltà. Vanno ben oltre. Comunicano la necessità di uno sforzo al dialogo, la tensione verso la trascendenza, la paura del vuoto, la necessità di trovare un senso in una vita (e in un'arte come la musica) dove spesso tutto è banalizzato e ridotto ad una quotidiana routine.
Così, nei concerti n° 1 e n° 2, il compositore fornisce solamente una traccia che il solista e il direttore possono sviluppare liberamente. Non esiste un'alfa ed un'omega. Esistono solo possibilità. Esistono bivi. Esistono scelte che si possono fare o che si possono rifiutare. Sta allo strumentista decidere quando iniziare e quando finire. Questi concerti avranno sempre una durata e una sonorità diverse ogni volta che saranno suonati e "vissuti". Una tensione verso il proteiforme e l'indistinto, quindi, dove il confine fra l'Io e il prossimo sono labili e sfuggenti, in un tentativo di fusione che è prima di tutto un atto di comunione ed amore verso gli altri.
Ma forse è solo illusione. Perché nel capolavoro del disco, il concerto n° 3, il messaggio di Maderna pare suggerire l'esatto contrario. Il concerto si apre con una lunga cadenza dove l'oboe intona il suo solitario lamento. Frasi brevi e nervose, staccati duri come spine senza nessuna rosa, sonorità acutissime e stridenti. Ed è solo verso il terzo minuto che l'orchestra fa la sua prima comparsa. Proiettando la sua sinistra ombra sonora. La parte solistica diviene sempre più impegnativa, portando allo stremo le capacità del solista, che affoga lentamente fra mille difficoltà: cambiamenti dinamici improvvisi, gruppi irregolari di note da eseguire velocissime, indicazioni che spezzettano di continuo la ritmica. "Molto scandito", "Sempre fortissimo", "Crescendo", "Tutto legato and so fast as possible". Le indicazioni di Maderna si fanno sempre più prementi. E intanto l'orchestra cresce. Entrano le arpe, le percussioni, la celesta. E poi una sezione di ben 39 strumenti ad arco. E il suono di 14 ottoni. E così l'oboe diviene sempre meno udibile, progressivamente cancellato dalle forze negative dell'orchestra. È la vittoria della società e dell'omologazione sul singolo e sull'individualità. Alla fine del concerto la voce timida del corno inglese raddoppia il timbro nasale dell'oboe, che boccheggia disarticolato fino alla predestinata estinzione nel silenzio. Il suo suono etereo e pastorale annegato dall'indifferenza e dalla forza cieca e brutale dell'orchestra. L'ultima opera di Maderna, e l'estremo saluto del grande compositore italiano al mondo dei suoni e dei vivi.
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