Bruno Martino, “I grandi successi originali”, 2 cd, 2009, Sony

Dopo aver reso giustizia ad uno degli album al tempo stesso più ributtanti e acclamati della storia, eccoci di ritorno a commentare musica per duri dal cuore tenero che si fanno beffe delle facili mode dei teppisti della “No wave”, e simili gonzi da periferia esistenziale.

Conoscemmo Bruno Martino (1925-2000), questo grande gentiluomo dal “crooning” appena smorzato da una rara delicatezza di tratto e di animo, in occasione della visione di “Romanzo Criminale” (2005), uno dei pochissimi film riusciti di quel babbeo di M. Placido: in colpevole ritardo, quindi. Uno dei suoi cavalli di battaglia, “Estate”, era infatti inclusa nella colonna sonora del film (la stessa canzone fu reinterpretata da vari jazzisti negri, e inevitabilmente rovinata dalla loro macroscopica assenza di gusto melodico: tra gli altri, Chet Baker e il meticcio Joao Gilberto, che addirittura ne fece uno strampalato bossa nova). Ne restammo stregati, e ci mettemmo alla cerca di opere del Maestro romano, interprete superbo, anche se per caso.

Particolarmente versato come pianista (acquisì padronanza dello strumento sotto la direzione di Armando Trovajoli), Martino pubblicò venticinque album in studio (più dieci raccolte) in venti anni abbondanti di attività.

“E la chiamano estate” (Califano-Zanin-Martino) è un soffuso quadretto romantico, in cui l’amante ricorda, sospirando dolentemente, l’amata perduta chissà dove: forse in una bettola sull’Aurelia, al chiaro di una luna come se non ci fosse domani. Un’orchestrina tra il jazz leggero, il sinfonico da balera e il protoambientale commenta il canto leggiadro e struggente di Martino. Il finale ricorda certe fughe per educande da “La carica dei 101”.

Notevole il lavoro di spazzole su “Fai male”; ancora orchestrina in grande spolvero, e il protagonista che, con animo nobile, tenta di dissuadere l’altra parte dall’instaurare un rapporto che produrrebbe solo dolore.

“Cos’hai trovato in lui” è un altro canto dolente, con trasfigurazione da lounge quasi noir e divagazioni pianistiche vicine a certe supponenze africanoidi. Ottimo intervento di sax, che riprende il tema principale senza snaturarlo. Alla fine, il pubblico applaude legnosamente.

“Estate” (dapprima “Odio l’estate”) è uno dei brani più importanti della storia della musica italiana. Testo immaginifico, ancora piano e sezione ritmica da complessino di negri ben educati al galateo bianco, il “crooning” di Martino qui raggiunge picchi siderei. Purtroppo, questi maledetti applausi ricorrenti rovinano un poco l’ascolto di una esecuzione ad ogni modo impeccabile. Da ricordare che la traccia fu interpretata anche da Mina e Califano, oltre che da autentici pagliacci dell’attuale cantautorato italiota.

Di gran lusso anche “Forse”, che si interroga sulle ragioni del cuore, di fronte ad un amore colmo di dubbi e di angustie irrisolte. Sax dimesso, poi ancora il maledetto piano suonato come un Chuck Berry qualunque, ma con più stile; il tema centrale è l’illusione (sanscrito “maya”).

Ancora amore deluso in “Rimpiangerai”, ove Martino redarguisce l’amata recalcitrante; si va avanti tra sogni, carezze morbide, dolci attimi e la certezza che la donna, per quanto creatura intrinsecamente malvagia, non possa distruggere tutto. Un organetto ripete sapiente il refrain, mentre la sezione ritmica fa un lavoro impeccabilmente spavaldo.

Leggendaria la “rendition” di “Roma non fa la stupida stasera” (tra gli autori Trovajoli): “manna li mejo grilli pe’ fa’ cri cri/presteme er ponentino/più malandrino che c’hai/Roma nun fa’ la stupida stasera”, versi entrati nella leggenda. Ancora un raddoppio con organetto e sublimi divagazioni sincopate di piano.

Il primo disco si chiude con due leggendari standard d’oltreoceano: “September Song” e “Smoke Gets in Your Eyes”, notevoli entrambi nella interpretazione. Nel primo, dei cori di negrette presentabili e ben intonate rendono il pezzo quasi onirico, mentre una chitarrina sbilenca si sovrappone con mestizia alla sezione ritmica quasi boogie; il sax signoreggia; nel secondo si ha un filtro quasi psichedelico nel terso incedere strumentale. Quando entra la voce chiara e stentorea di Martino non ce n’è più per nessuno.

Nel secondo cd, meno interessante perché più teso a rendere filologicamente alcuni standard anglofoni, da segnalare “Canzone di Orfeo”, malinconicamente lisergica (qui Martino canta in un francese non disprezzabile), l’interessante “L’amore è una cosa meravigliosa”, il sontuoso swing in crescendo “Mai e poi mai”, con bridge orchestrale degno di Wagner, la sinuosamente sostenuta “Too Young”, “Cry Me a River”, con “incipit” aoreggiante (qui Martino canta in inglese sembrando giapponese), sezione ritmica “westcoast” (tipo Colaiuta-Phillips) e finissimi ricami tastieristici à la J. Cain, e il gran finale di “As Time Goes By”, suonata e cantata meglio di Sam in “Casablanca”, trent’anni dopo: da un lato c’erano i nazisti a interpretare l’eterno ruolo di baubau, mentre ai tempi del Nostro impazzava la furia del terrorismo di vario conio, che Martino tentò con successo di far rifluire in una sorta di strategia della distensione.

Capolavoro imprescindibile, quindi, e storicamente e qualitativamente; censurabili solo le 2-3 interpretazioni di sfaldati stornelli tratti dal repertorio partenopeo-brasileiro. Se ce ne fosse bisogno, un altro “plus” che dovrebbe convincervi del tutto all’acquisto: Martino fu caro amico di Sandro Ciotti.

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