Facile parlare adesso di Brunori, diranno gli estimatori della prima ora. Ok, vero. Se ne è parlato parecchio con l’uscita di Poveri Cristi, alcuni miei amici lo ascoltavano già anni fa e me l’hanno consigliato, ma io l’ho snobbato perché mi sembrava troppo ostentatamente hipster e il singolo che girava allora, Kurt Cobain, non mi convinceva per niente.
Poi, La verità. Come tante altre volte m’è capitato, una canzone m’ha aperto la strada. Parole così schiette, così dritte al punto contro le ipocrisie e le meschinità di ognuno di noi, mi hanno colpito clamorosamente. Un crescendo che non vuole essere particolarmente originale musicalmente, ma che supporta e amplifica al meglio un testo d’altri tempi. Gli ho dato una possibilità a scatola chiusa, ho comprato il disco.
Bello, mi sono detto immediatamente. Inizialmente ho amato i pezzi più diretti e freschi: Canzone contro la paura è un De Gregori ancor più fluttuante, tutta attraversata com’è da seconde voci morbidissime. Il ritmo frizzante di Lamezia Milano. E poi La vita liquida, con quella coda finale molto tropicale che sa di immersione “panica” negli elementi della natura.
Il resto bellino, ma niente di che. Canzoni non troppo ambiziose, piccine. Poi però ho continuato con gli ascolti e ho approfondito i testi, dopo l’iniziale fulmine a ciel sereno de La verità. E mi sono reso conto della completezza dello sguardo di Dario Brunori. A partire dal primo brano, che dà avvio al percorso di messa in discussione di se stessi, vengono attraversati tanti aspetti della vita quotidiana di ognuno, le tante piccole ipocrisie, i «Sì» con l’amaro in bocca alla domanda canonica: «A casa tutto bene?».
C’è la politica aspra de L’uomo nero. L’invettiva contro i bersagli fin troppo facili si trasforma presto in una riflessione personale e intima, nella quale si inchiodano le ipocrisie anche di chi prende le distanze da certe linee politiche, ma nella sua condotta quotidiana conferma quelle stesse paure che stigmatizza. Fino all’amarissima conclusione: «Io che sorseggio l'ennesimo amaro / seduto a un tavolo sui Navigli / Pensando infondo va tutto bene / Mi basta solo non fare figli / E invece no».
La stessa Canzone contro la paura, una delle più immediate, ha un significato importante. Le parole hanno un piglio metanarrativo, raccontano del fare canzoni. E come in una grande preterizione si dice di non voler fare canzoni impegnative, si dice di cantare solo per sé, parlando d’amore. Ma nello spiegare quello che vorrebbero invece le persone, cioè canzoni che siano inni, canzoni che diano la forza, non si fa altro che trasformare la canzonetta in un inno da brividi: «E invece no tu vuoi canzoni emozionanti, / che ti acchiappano alla gola senza tanti complimenti, / canzoni come sberle in faccia per costringerti a pensare / canzoni belle da restarci male / Quelle canzoni da cantare a squarciagola, / come se cinquemila voci diventassero una sola / canzoni che ti amo ancora anche se è triste, anche se è dura, / canzoni contro la paura / Canzoni che ti salvano la vita, / che ti fanno dire "no, cazzo, non è ancora finita!" / che ti danno la forza di ricominciare, / che ti tengono in piedi quando senti di crollare». Dalla canzonetta all’inno identitario.
Lamezia Milano si propone come canzonetta estiva e intanto tira staffilate ben assestate: «Con il terrore di una guerra Santa / e l'Occidente chiuso in una banca. / Io me ne vado in settimana bianca, bianca. / Con la metropoli che ancora incanta / e la provincia ferma agli anni ottanta. / L'Italia sventola la bandiera bianca /e canta, e canta». Insomma, un altro gioco paradossale, del tipo molto caro ai Baustelle. Canzonetta pop dal cuore nero pece.
Saltiamo un attimo al trittico finale, che è decisivo. Forse Il costume da torero è la più significativa di tutto il disco: c’è un’ammirevole volontà di prendere il toro (il mondo e le sue brutture) per le corna. Un coro di bambini intona: «La realtà è una merda / ma non finisce qua»; l’unica speranza è data dal fatto che le cose non sono immodificabili, c’è spazio per il futuro. La dialettica è tra cinismo (smettere di credere che il mondo possa essere migliore) e stupidità (pensare che siano sempre gli altri a dover cambiare). Anche qui si smascherano le ipocrisie quotidiane delle persone.
Secondo me ripropone i paradossi onnipresenti nel disco: ognuno vede le cose a modo suo, chissà invece come sarebbe assumere la prospettiva altrui. Ma inevitabilmente quel «secondo me» introduce anaforicamente tante opinioni, più o meno sensate. Come a dire che anche lui, Brunori, può dire stupidaggini, come quella dei centri commerciali. Restano tutte opinioni, non ci sono verità rivelate.
E dopo tutto questo arrovellarsi, arriva il finale che smentisce tutto, proseguendo la dialettica paradossale che attraversa il disco. Dopo una serie di giudizi, magari camuffati, magari sussurrati e messi in contesti sgargianti, arriva l’ultimo sforzo raziocinante: «Ma l'ho capito finalmente / Che io del mondo non c'ho capito niente / Che voglio fare il furbo e invece sono / Un fesso come sempre / Me lo dicevi anche tu / La vita va vissuta / Senza trovarci un senso / Me lo dicevi anche tu / La vita va vissuta / E invece io la penso».
Un cerchio che si chiude, dopo aver smascherato le tante ipocrisie della gente, il cantautore smaschera se stesso e individua la via per la vita serena, per poter dire davvero «A casa tutto bene». Lo spiegano i versi finali: «Me lo dicevi sempre / La vita è una prigione / Che vedi solo tu / Me lo dicevi sempre / La vita è una catena / Che chiudi a chiave tu». Un po’ un ridimensionamento di tutto: chi sa vivere, vive, non se le sogna nemmeno queste fisime.
Colpo di pistola è un lento ben posizionato tra due brani frizzanti, lo si regge bene, anche se poco sapido nei contenuti. Diego e io è una bellissima ballata, che mette in mostra al meglio le possibilità canore di Brunori. Don Abbondio forse è il passaggio esteticamente più stanco, ma ha una notevole coerenza con il concetto dell’album: «Don Abbondio sono io / affacciato alla finestra / a guardare le macerie / a contare quel che resta». Sabato bestiale riprende a galoppare e gioca molto bene con i luoghi comuni, frasi fatte e sferzate di schiettezza che corrodono il perbenismo e l’ipocrisia, obiettivi polemici del disco.
Le imperfezioni sono poche, qualche minimo passo un po’ prevedibile e ripetitivo verso la seconda metà, qualche frase un po’ stucchevole, alcuni passaggi descrittivi non necessari. Ma per il resto è tutta materia preziosa. Ho già comprato i primi due album.
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