Piccola premessa: Buckethead e’ un autore che definire fecondo e’ un eufemismo; e i pikes, di cui quest’opera e’ un errante frammento, sono una serie infinita di mini-album che Carroll ha cominciato a pubblicare nel 2011. Ne esce praticamente uno a settimana e finora hanno superato i 200 dischi. Sono opere assai dispersive, spesso inutili: soltanto pochi sono veramente degni del livello a cui Carroll ci ha abituato durante la sua –vastissima- carriera. Proprio questa e’ la piu’ grossa pecca di Testa Di Secchio: essere troppo prolifico. Se meditasse un paio d’anni su un disco probabilmente concepirebbe un capolavoro. Anche se con questo c’e’ andato dannatamente vicino.

Tra i virtuosi ( di cui mi piacciono ben pochi pezzi, giusto uno qua e uno la dei rispettivi primi album), brilla la stella di Buckethead: nessuno guitar hero finora, ne’ Vai, ne’ Satriani, ne’ Malmsteen, sono riusciti a essere tanto eclettici quanto Buckethead, che spazia in diversi ambiti, dalle onde violente dell’ heavy metal alle risacche ambient, dal funk metal al grindcore e al trash, dal progressive rock alla musica sperimentale, dal funk all’hip hop, fino al reggae… Buckethead e’ l’unico virtuoso (nell’accezione degli anni 80) che non si stanca mai di sperimentare. Il suo modo di suonare e’ uno strano miscuglio tra Marty Friedman, Randy Rhoads e Dave Murray, anche se Buckethead riesce a variare di piu’, spingendosi oltre le Colonne D’Ercole del chitarrismo selvaggio e indemoniato

Si dice che l’arte nasca dalla sofferenza e che sia l’unico modo per sfuggire alla morte: rendersi immortali con la propria opera. Sara’ stata la morte della madre, a cui e’ dedicato questo disco, a spingere Brian Patrick Carroll, in arte Buckethead, a comporre il suo capolavoro? Si’, perche’ questo disco e’ il migliore Buckethead che i miei timpani abbiano sentito rimbombare dentro al teschio. E’ omogeneo, cosa per lui davvero insolita, visto che i suoi dischi assomigliano a collage musicali in cui ogni pezzo del puzzle non si incastra con l’altro; ed e’ talmente vario che ti viene spesso da chiederti: ma e’ sempre lui che suona?.

Un album che e’ un'unica, interminabile canzone – di ben 28 minuti! Un requiem per chitarra elettrica da cui si dipanano, come da una matassa di lana, assoli martellanti e indiavolati, riff granitici e temi accattivanti. Le sue note evaporano nella volta stellare, e diventano un tutt’uno con il cosmo; scaglie di luce bucano le pareti della mia camera, quando lo ascolto. Grandinate di riff che ti entrano in testa come proiettili e assoli che scorrono come fiumi cristallini; schegge di ritmi marziali che decapitano chi si avvicina troppo e che si innalzano fino a bucare la troposfera. Tutto condito da passaggi sofisticati e delicati che risultano quasi ambientali, senza mai cadere nell’artificiosita’.

Vorrei poter dedicare un respiro per ogni nota, ma va troppo veloce per riuscirci. Non inciampa mai in inutili tecnicismi fini a se stessi, e le sue soluzioni melodiche per chitarra sono tra le piu’ affascinanti che io abbia mai udito. Un solo ascolto ci proietta negli abissi dell’oblio, del puro piacere: gragnole di note che saltellano qua e la come rane nella pioggia si susseguono risvegliando in me istinti sopiti. Questa qui e’ vera musica: quella imbevuta nel sogno, che ti strizza il cuore fino a spremerne via le ultime gocce di sangue. Mi fa pensare a una persona cara che non c’e piu, di cui ritrovo la luce tra le mie ombre. Mi domando che ne avrebbe pensato: se gli sarebbe piaciuto ascoltarlo.

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