L'ultimo mirabolante lavoro di Buckethead è targato 2006. Il chitarrista funambolico, appassionato di polli e di Disneyland, con questo “Crime slunk scene” dimostra e conferma, oltre che tutte le sue incredibili capacità, tutti gli elementi del suo playing e della sua proposta musicale.

Lo definirei un chitarrista veramente eclettico, che riesce davvero a mischiare molti elementi diversi nel suo stile e nella sua composizione. Lo definisco mirabolante perchè lo è davvero: in un era in cui il solismo esasperato sta perdendo un po' di pubblico e di successo, ma soprattutto di qualità, Buckethead continua imperterrito a sfornare dischi su dischi i quali possiedono tutti, indistintamente, una qualità davvero unica.

Tralasciando il solito discorso sulla sua bizzarra immagine, di cui si è discusso fin troppo, “Crime Slunk scene” si presenta già goliardico dalla sua copertina: la sua sagoma sull'asfalto con miriadi di polli e galline attorno. Il contenuto musicale invece rasenta la perfezione. Apprezzo molto “testa di secchio” per l'essere poliedrico, romantico ma anche aggressivo, incredibilmente “strano” ma concreto, la cui musica è dotata di repentine variazioni, ma alle volte anche monotòna e martellante.

Ma ogni definizione potrebbe andare bene, vista la notevole quantità di spunti interessanti che Buckethead inserisce. Sempre.

Partendo già dalla prima pazzia che è “King James”. Un ritmo abbastanza veloce, introdotto dalla stranissima sonorità della chitarra, per poi addentrarsi in lidi molto più melodici. Difficile fare paragoni con alcuni suoi vecchi brani, perchè tutti questi nuovi brillano di originalità. Buckethead gioca con gli effetti, gioca con tutte le modulazioni possibili, ma è solo un piccolo assaggio perchè la seguente “Gory Head Stump 2006 The Pagea” gioca costantemente con ritmiche scandite dal pianto del Wha Wha. Ritmiche ostinate prima di partire con un assolo al limite della cacofonia, per poi lasciare la pazzia e entrare in fraseggi molto più bluesy infarciti con vari flanger e tremolo, mentre volano le dita veloci sulla chitarra. Trovo invece “The fairy and the devil” una piccola gemma: con il pesante sottofondo di una chitarra elettrica, ostinato e ripetitivo, Buckethead costruisce una melodia infarcita di suoni puliti e armonici. Questa volta pochi effetti arricchiscono la gamma sonora del chitarrista per creare un tappeto sonoro eterogeneo ma infallibile. Si ritorna ad un “heavy” più classico con “Buddy Berkman's Ballad” in un brano molto variegato e poi con “Mad Monster Party”, dai ritmi ora pesanti, ora marcianti, ora tribali. “Soothsayer” è un brano dedicato allo zio. Come è facile intuire è un brano melodico, molto docile e con un assolo distorto molto sofferto, veloce e tecnico ma denso di sentimento. Credo che Buckethead sia maestro nel creare idee su idee organizzate su una sola base arpeggiata e ostinata di chitarra pulita.

Finita la prima parte del disco, si capisce subito come si lascia la normalità per entrare in un mondo chitarristico totalmente diverso. Ora Buckethead mostra il meglio, arricchendo le canzoni di ogni pazzia possibile. Ad iniziare dalle ritmiche e dalle melodie impossibili di “Col. Austin VS Col. Sanders AK” per passare alle stranezze di “We can rebuild him”. Si inizia davvero a fare sul serio, in un brano che è geniale nella sua incredibile complessità. L'uso dell'effettistica è incredibilmente azzeccato, un uso così variegato che sinceramente non ho mai visto un chitarrista farne un uso talmente strano. Ma sotto questi tappetti di effetti c'è tanta, troppa sostanza. Infatti “Electronic Slight Of Hand” è semplicemente perfetta, donandoci prima il chitarrista in versione videogame, per poi consegnarlo a variazioni che ricordano tanto la bellissima “Nottingham lace”. Al di là della tecnica che è fuori discussione, qui si parla di musica a tratti cerebrale, soprattutto le conclusive “Mecha Gigan”, totalmente pazza, e “Slunk parade aka freaks in the black”, totalemnte fuori dal tempo e fuori dallo spazio, data la sua incredibile stranezza e la sua totale mancanza di logica e di struttura.

Non ci sono emozioni, non c'è trasporto, non c'è nulla di tutto questo. Per me c'è lo stupore. Non ho i brividi, non ho le lacrime agli occhi, ma ho nelle mani un signor disco, di un artista che continua a portare avanti le sue sperimentazioni, che continua a portare avanti le sue stranezze, la sua immagine ma soprattutto la sua musica ricca di virtuosismi, ma anche di idee, di grandi note e di grandi melodie, ma soprattutto di grande genialità, di grandi capacità.

Continuo a definire Buckethead un genio della sei/sette corde, continuo a definirlo troppo avanti per tutti. E questo mirabolante, piccolo capolavoro ne è la dimostrazione.

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