"Corrosivo" non è la parola esatta. Ma è la prima che viene in mente.

Se il genio criminale della letteratura dei nostri tempi, al secolo Chuck Palahniuk, dovesse esprimere la sua idea sul genio criminale della chitarra del terzo millenio probabilmente direbbe una cosa di questo tipo.

Buckethead è corrosivo. E il suo è un rock corrosivo, anche se la parola "rock" è troppo limitativa. Disturba fino all'eccesso, con le sue melodie dissonanti e cacofoniche a un primo ascolto. Ma dietro c'è qualcosa di più. Deve esserci qualcosa di più. Tralasciamo per un attimo il fatto che abbiamo a che fare con un personaggio alquanto singolare, giusto per usare un eufemismo. Lasciamo da parte il secchiello del pollo fritto in testa e la maschera bianca: allora sarà spontaneo intuire che abbiamo tra le mani un disco in realtà molto semplice e per niente contorto. Buckethead suona la chitarra come meglio gli viene; evita la strada facile, quella che ti fa vedere il tramonto sul mare e le scogliere bagnate dal mare, preferisce prendere sentieri ripidi e scoscesi, si avventura su passaggi pericolosi dove si rischia di lasciarci le penne. Ma vuoi mettere il divertimento! Il suono della chitarra che sembra venir fuori da un piccolo amplificatore da 20watt, basi trash sulle quali Brian Carroll (ebbene si, almeno un nome ce l'ha!) improvvisa, tira fuori il sangue dalla sua chitarra, le fa sputare note alla velocità della luce e un secondo dopo quelle sei corde sparano armonie ipnotiche quanto febbrili.

Gli episodi di "Jowls" e "The Shape vs. Buckethead" per citarne solo due, sono testimonianze dell'inclinazione che il chitarrista ha per i film horror. Riesce bene a trasporre in musica le deviatezze che questo genere cinematografico porta con sè. Al limite della cacofonia, al limite dell'ascoltabilità; ma pur sempre canzoni pure e sanguigne che pulsano come carne viva e un poco fanno emergere le paranoie che noi a tutti i costi cerchiamo di nascondere.
Se il manifesto del suo personaggio si può ritrovare nei versi di "The ballad of Buckethead" cantati dall'impeccabile Les Claypool (Primus), dove viene raccontata la sua infanzia (vera?) passata in un pollaio, forse tutta la goliardia che è nascosta sotto quella maschera bianca viene fuori in "Who me?", unico episodio acustico dell'album ma davvero spassoso in cui un annoiato Buckethead sbadiglia mentre arpeggia una lenta melodia, forse smanioso di rimettersi a partorire canzoni distorte e corrosive per l'appunto.

Sarà duro da digerire quest'album per i palati fini, ma è un must per chi sente il bisogno di spaziare fuori dalla strada conosciuta, e avventurarsi per un'ora scarsa in un macabro parco giochi dove il divertimento è assicurato, tra suoni sinistri e goffi clown. Suonerà esagerato a molti, pochi lo troveranno entusiasmante. Ma questo disco ha il pregio di suonare diverso. E considerando che ha ormai dieci anni di vita non è poco!

Un genio maledetto in piena regola. Paranoico. Schizzato. O semplicemente uno che gioca a prenderci tutti in giro riuscendoci benissimo.

Ad ogni modo, da ascoltare almeno una volta.


NB: Per i patiti degli aneddoti, le parole che introducono la prima canzone "Jump in" sono parole che Michael Jordan dice in un videotape intitolato "Come fly with me" dedicato alle sue prodezze di innumerevoli anni fa! Dato che con quel video sono cresciuto, grazie a questo pazzo con un secchiello in testa sono tornato per un attimo ai vecchi tempi.

I can't never stop working on...Each day I feel I have to improve...
Hard work, determination...I got to keep pushin' myself.

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