Chi ebbe modo di intrasentire e/o audio-seguire il Buffalo Tom sound-viatico fin dal primo, ribollente, omonimo esordio promulgato in seno alla storica SST (tra le più intriganti fucine acustiche del rock “non conforme” di fine eighties), all’uscita del descrivendo “Big Red Letter Day” e/o del suo predecessore “Let Me come Over”, intravide il fermo compimento di una parabola artistica in piena et positiva fase ascensionale.
Questa stringata, confidenziale, rossa missiva lasciata ai posteri oramai nel secolo scorso (1993) dal trio Bostoniano contempla in sè una appassionante e vitale materia rock-chitarristica addizionata ad una integerrima, mai banale, vocale propensione melodico/interpretativa; Bill Yanovitz e i suoi due, davvero inseparabili, amici/compagni d’avventura dimostra(ro)no concretamente, nella eventualità ve ne fosse di bisogno, che la stra-classica/inflazionata rock tri-murti guitarra+basso und batteria, se adeguatamente supportata da ingegno et intellighenzia (of course), può (e sempre dovrebbe) regalare laute e ricche audio-soddisfazioni. I tre perspicaci rockers in questione, tutt’altro che musicalmente im/Buffaliti, vennero impropriamente e forzatamente accostati (maledette etichette...) a realtà del semi-medesimo circostante cronologico-espressivo (Dinosaur Jr, Husker Du etc. ): pregevoli lavori come questo sequenzialmente quarto, dimostrano viceversa una evidente emanazione di brillante und (s)folgorante luce propria. Pur non stravolgendo/innovando radicalmente et compiutamente alcun già noto rock-dettame, spesso affiancarono, se non a tratti surclassarono, per cospicua classe e positive peculiarità espresse, i presumibili ispiratori: un corpus suonandi costituito da una solida nevrasse episodicamente ancora caratterizzata dagli sferzanti toni degli esordi (indie-post-punk), centellinato sapientemente a copiose e melodiose, mai stucchevoli, innervazioni vocali, frutto altresì del microfonico pregevole lavoro d’alternanza delle due voci.
Con buona probabilità, “Big Red Letter Day” non rappresenta integralmente l’apice creativo dei tre virgulti del Massachusetts, ma custodisce “semplicemente” (e gelosamente) al proprio interno alcune tra le canzoni (suffisso utilizzato non a caso) più intrighevoli (intriganti + gradevoli) und riuscite della non copiosissima Buffalo-discography: “Tree House” con i suoi cristallini intrecci vocali su frizzante base ritmica, la intensa “Would Not Be Denied”, o “I’m allowed” carezzevole, sfaccettata quanto grezza gemma, lasciano sinceramente appagati per arguta et solida rock-leggiadria, immenso pathos confidenziale e sviluppo armonico; l’intero lavoro, composto da eleven tracks per poco più di quaranta minuti primi di durata, promulga ripetutamente copiosi et intensi frammenti di rock-verticistica qualità.
Pressoché relegati al sound-dimenticatoio, nonostante (ad onor del vero, non tutti dello stesso spessore qualitativo) sei studio-album redatti nell’arco di circa dieci anni (outtakes & b-sides, not included), ci si imbatte (s)oggettivamente in una delle tante quanto macroscopiche ed ingenerose musical/sviste (diciamo così...) della fervida, quanto anche troppo spesso sterile, under e overground rock-scene confederale attinente l’ultimo decennio del precedente millennio.
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