Trogloditi, cavernicoli, rozzi scimmioni della pietra che hanno imparato a memoria la lezione dei Black Sabbath. La chitarra maneggiata come una clave bitorzoluta, schiacciasassi. Il suono saturo, roccioso e (vedi copertina) magmatico. Lapilli incandescenti, fiumi di riff distorti e malefici. La struttura dei pezzi è un assalto violento allo stomaco, spietato.

E deserto. Un enorme, potente vulcano in mezzo a un oceano di dune e cactus. Un Krakatoa immerso in sabbia rossa. Stiamo parlando dei Buffalo, australiani artigiani heavy-doom, stoner da un quintale di amplificatori buttati in faccia direttamente dal '73. Una delle glorie dimenticate dell'aussie-rock, molto prima che i Radio Birdman dessero il la a una scena coesa per tutto il continente.

Sperduti nell'Oceano Pacifico, lontanissimi, li immagino nella loro baracca da vaccari puzzoni, sommersi di vinili. Ovviamente: Blue Cheer, rock distorto, heavy blues, Detroit. O magari solo impiegati bancari fulminati dall'invenzione del riff; poco importa, perché il risultato è veramente sanguigno e d'impulso. Un gancio sul grugno, una martellata dove fa più male, una mazza da baseball in pieno collo: fate voi.

Ripescato nelle pieghe del tempo dalla Aztec Records (preserving Australia's rich musical heritage), il secondo LP dei Buffalo è una bomba al napalm. Nel genere le perle dimenticate sono forse altre (la montagna di ampli tirata su da Randy Holden per Population II? I 45 giri dei Pentagram riscoperti solo nel nuovo millennio e che suonano come dei fottutissimi classici?) ma basta la conclusiva cingolata "Shylock" (in dedica allo shakespeariano mercante di Venezia) per desiderare anche questa roccia vulcanica: groove maligno e una sequenza di accordi da boia macellai.

Non certamente innovatori, padroni di uno tra i suoni più pesanti e sfacciati del periodo, nuotavano nello stesso mare (di lava) in cui sguazzavano antropomorfi coevi (per dirne due: Sir Lord Baltimore, Night Sun). Adatti a chi, tra una bistecca al sangue e un'insalatina mista, sceglie...

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