Succede a volte che i capolavori si perdano nel tempo, a causa della loro scarsa reperibilità e del loro feeling mistico e oscuro, troppo eccentrico per l'epoca. Centinaia di grandi band si sono infatti formate nei 70s, ma a ben poche di esse diamo il riconoscimento che meritano.

Tra i grandi gruppi dimenticati ci sono anche questi Bulbous Creation, band texana attiva nei primissimi anni 70, autrice di un sound psichedelico e contemporaneamente anticipatore del metal che verrà, basato sui riff di chiara matrice hendrixiana mista al doom dei black sabbath, e soprattutto dei chiari riferimenti (non sò se voluti o no) alla scuola hard rock inglese (specie gli Uriah Heep più sobri e diretti).

Uscito nel 1970 in sole 500 copie in vinile (non mi risulta esista una ristampa in cd, ma c'è la possibilità di procurarlo per vie non proprio ortodosse sul web...), questo "You Won't Remember Dying" è uno dei dischi più malsani e oscuri che si possano ascoltare in ambito hard rock. Il contenuto è fatto di partiture chitarristiche praticamente doom metal, se non fosse che la distorsione è ancora quella tipica della fine dei 60s; basso molto dinamico e agile, che supporta la chitarra in maniera eccelsa e si rende perfettamente udibile nonostante la produzione non sia eccellente, e batteria, forse l'elemento più marcatamente rock e meno estremo, in quanto si basa su uno stile tribale un pò rockabilly, con certi passaggi derivati dal jazz, giocati soprattutto sull'uso (sempre molto delicato) dell Hi-hat. Il disco si compone di sole otto tracce, per un totale di quaranta minuti scarsi.

L'apertura è affidata a "End Of The Page", triste lamento acustico lento e desolato, molto latineggiante. Nonostante sia un pezzo stilisticamente molto diverso dal resto dell'album, i suoi toni malsani si abbinano perfettamente con il resto della release, che si dimostrerà un viaggio in un universo progressivamente più oscuro, partendo dall'atmosfera crepuscolare di questo brano per arrivare infine alla notte più buia, illuminata solamente dal fuoco provenente dai sulfurei giri di chitarra hendrixiani e "alla Iommi".

Il secondo brano, "Having A Good Time" è una cavalcata rock che unisce lo spirito rock n'roll alla Led Zeppelin al feeling dark dei Black Sabbath. Nulla di davvero eccezzionale, ma rimane comunque piacevole all ascolto. Un punto di merito per questo brano và all assolo, anche se derivativo da altri gruppo già conosciuti all epoca (Grateful Dead, ad esempio), riesce a rendersi unico per lo stile in cui è proposto.

Il terzo brano, "Satan" è un vero e proprio rituale a metà tra il doom rock e il vodoobilly. Ruvido, ossessivo, tribale, mefistofelico: un incalzante sabba di riff chitarristici alla Iron Butterfly e cantato alla Uriah Heep (era "Very 'eavy... Very 'umble") in versione sconsacrata. Nonostante durante tutta la durata del brano la musica sia omogenea e si basi in pratica su 4 riff e qualche solo, il brano riesce a non annoiare.

Il quarto brano ("Fever Machine Man") è probabilmente il capolavoro del disco: alla formazione basso/batteria/chitarra/voce si aggiunge anche un organo rock (suonato da chi non so, dato che in copertina non ci sono i nomi degli artisti, ma solo la tracklist e l'immagine dei nostri quattro senza che sia specificato nemmeno cosa suoni l'uno e cosa l'altro). La struttura è sempre basata su riff doom, ma ora è il basso a farli da solo, mentre la chitarra si trasfigura in un duetto con il cantante che questa volta si impegna per arrivare più in alto che puo, perdendo si un pò del carisma della sua voce roca (che comunque ritorna negli sregolati "ah!" lamentosi lanciati in alternanza alla strofe), ma guadagnando in duttilità. Tutti gli stumenti compiono un lavoro cooperativo perfetto, trasformando questo brano in una versione degli inferi di "Help Me" dei Ten Years After, che anche se non raggiunge il carisma del brano prima citato, si mantiene comunque uno dei brani migliori che vi possa capitare di ascoltare in ambito hard rock.

Con la quinta "Lets Go To The Sun" siamo davvero ad una versiona epica dei Black Sabbath: dei riff che potrebbero essere dello Iommi di "Paranoid", una batteria che è la versione rock del tribalismo di Abbandon dei Venom, una voce delirante e poverosa, calda ma secca, che ci porta alla mente le zone deserificate del texas, e il solito basso cupissimo ormai stemma del loro sound. Il rituale prosegue per diversi minuti, sino a culminare in un assolo che definire schizofrenico è poco, contornato da effetti sonori di acqua che scorre voricosa e l'inaspettata entrata in scena di una armonica a bocca, per poi lasciare il passo ad un vodoobily ancora più cadenzato dell'inizio della traccia in cui la voce del cantante torna a fare da protagonista per un pò, per poi lasciare dinuovo il passo alla chitarra, per un assolo ancora più schizoide del primo, che potrebbe essere sicuro catalogato come uno dei più estremi dell'hard rock.

Si prosegue con "Hooked", dove troviamo un clima più solare, calmo e rasserenante, nonostante i testi siano sempre i soliti gridi di disperazione (da quanto ho capito ascoltandoli, dato che non ho avuto la possibilità di leggere le lyrics, i temi ricorrenti sono il satanismo (ma và? con una canzone come "Satan", di cosa avrebbero potuto parlare?) e il male di vivere ("oh, lord, i just wanna die", urla il singer attorno ai 3 minuti di questo brano, tema classico ma sempre attuale). In questo pezzo ritorna l'organo nei suoi assoli cerimoniali, mentre il peso del basso si sente un pò meno, in quanto fà da semplice contrappunto alla chitarra. Il riff centrale comunque è notevolissimo, e vi si imprimerà nella memoria (e si è impresso nella memoria anche di tanti altri artisti, che, seppur molto validi hanno poi dato vita a riff che prendono a piene mani da questo disco).

"Under The Black Sun", penultimo pezzo, è il brano più aggressivo dell'album: rock n' roll infuocato e infernale, con testo palesemente ispirato all occulto (per quello che ho potuto capire). è il climax del disco in quanto energia: qui tutti gli artisti mettono del loro meglio per scatenare un inferno, non oscuro e morboso come nelle precedenti canzoni, ma sulfureo e bollente, tipicamente rock e tipicamente psichedelico.

Cominciato col folk, proseguito con il doom rock e l'hard rock, l'album si conclude con il blues notturno e fumoso di Stormy Monday, lenta ballata dal gusto inglese con un riff memorabile che farà storia e influenzerà grandemente i pochi fortunati che riuscirono a procurasi il vinile quando fù pubblicato per la prima volta.

Voto: 9/10

Carico i commenti...  con calma