Album: Belus (2010) Artista: Burzum

Inutile, non fatevi ingannare da chi giudica troppo in fretta, non imparate da loro, non imparate mai. Ascoltate. E ascoltare non vuol dire sentire, ricordatelo. Prendetevi un'ora, sedetevi comodi, fate partire questo album e cominciate. Non indagate troppo a criticare suono, o esecuzione, o sbilanciamenti... non servono.

Quest'album, come del resto è solito di Burzum, se ne frega. Fregatevene anche voi, e immergetevi ad occhi chiusi nella ripetitività (anche qui, sempre meno dei precedenti) di questo fragore, lasciatevelo scorrere addosso, senza pensare a nient'altro che alle sequenze di chitarra graffiante ma innocua, a quel basso parallelo e a quella voce spenta e lontana che urla testi incomprensibili (forse per fortuna).

L'attacco si fa aspettare, lo precede una traccia, giusto mezzo minuto di ticchettio lento e leggermente irregolare. Aspetta che gli prestiate un po' più di attenzione. E poi parte subito "Belus' Doed", come di consueto batteria quasi inesistente, chitarra zanzarosa, voce dall'oltretomba, sul serio, non come il growl a cui molti di voi saranno abituati, pulito, ordinato, intonato.. no. Questo viene da laggiù sul serio, e ti morde, ti graffia, ti fa capire che è assolutamente indifferente il fatto di conoscere o meno quella lingua. Si capisce (o non si capisce) ugualmente.

La terza traccia, undici minuti, inesorabile, ma tutto sommato pacata e orecchiabile dal punto di vista del suono. Verso la fine, timidamente si fa strada e comincia a incalzare un raddoppio nella cassa della batteria, che preannuncia il ritmo più sostenuto della successiva. La ripetitività di queste sequenze sta alla base di questa musica, che si propone come lenta variazione di una struttura fondamentale... Sulle quattro note che si susseguono per tutta la traccia viene man mano costruita l'armonia, che poi varia, si scambia, si arricchisce, si smonta, si ingrossa, si alza, si perde, si allontana, e poi immancabilmente ritorna, ma sempre cambiata, anche se non troppo, in modo che la possiamo riconoscere ancora, sì, è sempre lei, ancora lei, cresciuta e maturata, ma ci ricordiamo di lei, e in fondo ci fa piacere.

La quinta traccia, "Sverddans", ci stupisce, ha una sua struttura, che ci rimette un po' in ordine, ci tranquillizza. Quando ci sbattono davanti una canzone anche cosÏ atroce, già il fatto che sia 'in ordine' è per noi un gran passo avanti. Stupido no? Come se avesse un senso solo perchè si compone di tre strofe e un ritornello che si ripete uguale. E infatti non dura, in due minuti e mezzo è già andata. No, non in questo disco. Toglietevi l'abitudine di cercare le "canzoni". Queste non sono canzoni, questa è musica. La differenza che c'è tra un bel disegno e un quadro astratto: il disegno ci tranquillizza, magari Ë un po' strano, distorto, ma sappiamo cos'è. L'astratto ci spaventa, ci incute timore. Ma è l'astratto che più di tutti ci fa provare un'emozione, ci dice paradossalmente molto di più del disegno, del quale invece presumiamo di capire tutto. Capire...non è quello che ci serve.

Ciò che dobbiamo fare è cercare, sempre, chiedere e cercare, interpretare. Ed è ciò che ci invitano a fare i quadri astratti... i libri paradossali... questo disco. L'ottava e la nona traccia (conclusiva) sono legate, ma in quest'ultima ogni senso di ritmo è assente...contano solo le note, che se ne vanno sfumando molto lentamente, lasciandoci silenziosi e soli alla fine dei suoi nove minuti, più desiderosi che mai di uscire, o di mettere quanto meno la testa fuori dalla finestra. Perchè ci sentiamo prigionieri, o quantomeno imprigionati.

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