Ma guarda un po’… è tornato a 14 dallo splendido “Spheres” di casa Pestilence uno dei migliori chitarristi del death metal tecnico, quel Patrick Mameli che tanto ha influenzato il genere dopo aver partorito uno dei punti fermi del techno metal; in questo ritorno col progetto C-187, ritrova inoltre uno dei suoi ex-compagni al basso, in forza pure con Atheist e Cynic ossia mr. Tony Choy, pluriosannato strumentista capace di coniugare jazz e metal come altri pochi sanno fare. A completare la formazione ci pensano Sean Reinert (spero tutti sappiate chi sia, se non è così vergogna) e Tony Jelencovich alla voce, in passato con Angel Blake, B-Thong e Transport League.
Diciamo subito, levandoci ogni sorta di dubbio, che nonostante siano coinvolti la créme de la créme di musicisti nel progetto, questo “Collision” è un disco inutile, borioso, fastidiosamente innocuo e poco accattivante dal punto di vista melodico, a dimostrazione del fatto che non bastano tanti bei nomi e un bagaglio tecnico di livelli strabilianti per produrre un disco di livello anche solo sufficiente.
Musicalmente il platter dovrebbe, in teoria, riesumare il death tecnico che tanta fama ha portato a questi simpatici personaggi, il tutto calato in un’atmosfera più vicina al modern thrash tecnico dei Meshuggah, con l’unico appunto che poi il tutto si traduce in un lavoraccio scialbo di rap metal, che farebbe vergognare (non tecnicamente si intende) anche gente tipo i Limp Bizkit. Nel marasma generale e nella totale confusione compositiva affiorano ogni tanto momenti gradevoli, come in “Stalker” nella quale il gruppo abbandona il rap per tirare fuori un pezzo a cavallo tra il thrash e un certo nu metal di maniera calato in un’ottica tecnicamente avanzata, senza però mai esagerare.
Ancora si fanno lodare le soluzioni melodico-ritmiche in “Sidewalk Chalk”, pezzo potente ed aggressivo che mostra la parte migliore della band. A far da contraltare ci pensano poi episodi fantastici (sembra vero) come “Crusin’ 4 A Brui” che al di la del titolo, roba da far sfigurare certi titoli di rapper ben più famosi, infastidisce all’ascolto presentandosi come track estremamente caotica, senza capo né coda, nella quale un pazzo sclerotico, Jelencovich, strilla e cerca di scimmiottare, con risultati pessimi, Jonathan Houseman Davis; non finisce qui dal momento che tutto il resto del lavoro, esclusi i pezzi citati in precedenza seguono le orme di quella canzone di cui mi rifiuto anche solo di scrivere il titolo (santo Dio, ma come mischia hanno fatto ad inventarsi cose tanto bore??, chi sono i coatti miei concittadini di Cinecittà??).
Detto ciò non credo ci sia altro da aggiungere… ah la produzione è, neanche a dirlo, iper curata e plasticosa come poche, il che contribuisce a dare all’album un’atmosfera anche più finta e fastidiosa, e non basta neanche una prova tecnica generale di livello elevatissimo a risollevare le sorti di un album che fa acqua da tutte le parti. Speriamo solo che il buon Patrick la prossima volta ci pensi su qualche minuto prima di tirar fuori questi capolavori (la effe è voluta), sennò credo che le mie orecchie si fossilizzeranno su “Spheres” e faranno finta che tutto ciò che ha prodotto dopo quest’uomo non esista.
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