Nei primissimi '80 anche la "Scena di Sheffield", tendenzialmente seriosa ed austera, venne contagiata da quella pandemia di febbre ritmica già diffusasi in ampi settori di nuova onda: una tenebrosa synth band come Vice Versa, mutò pelle e ragione sociale, sfoggiando, come ABC, una nuova e scintillante livrea disco; i cerebrali Clock DVA, dopo lo split, si lanciarono nello spettacolare funk evoluto di "Passions Still Aflame", senza evitare però di appaiarvi un 12" che avrebbe fatto invidia agli Chic.
Era un po' come se, anche in quella landa siderurgica, le nuove icone da venerare fossero divenute piste da ballo e luci strobo piuttosto che capannoni ed altoforni come era successo fino ad allora.
Cabaret Voltaire, ditta fondata nel 1973 e dedita per anni ad un umile artigianato elettronico dalle tinte foschissime, non sfuggì al morbo, peraltro senza grosse perdite d'identità o troppe concessioni al mercimonio. Ancora sacrificato nell'ermetico "Red Mecca" dell'81, in questo successivo doppio EP lapalissianamente battezzato "2 x 45", il ritmo esplode altresì con gran furore, prodotto per la prima volta a tempo pieno da strumenti tradizionali. Anni di esperimenti e qualche spicciolo speso in nuova tecnologia, hanno inoltre permesso ai tre di allontanarsi dall'elettronica clochard degli esordi, tutta bassa fedeltà, fuzzbox autocostruiti e drum machines di seconda mano, per arrivare ad un suono brillante e magnificamente prodotto. Aggiungiamo pure qualche ideuzza arrivata al momento giusto e ben messa a fuoco, insomma, quella che in arte si chiama ispirazione (e che, dicono, faccia la differenza) ed ecco i risultati, condensati al meglio nella prima parte dell'opera, registrata nel loro storico covo e con C.Watson per l'ultima volta nella partita: "Breath Deep": come se il R&B dei primi Dexy's Midnight Runners venisse lavato nel vetriolo, impastato con la sabbia e nebulizzato col compressore; "Yashar": serratissimo sottofondo per una lasciva danza del ventre, ambientata in un accampamento berbero su un deserto di Marte; "Protection": linea diretta con un dance floor dell'oltretomba con S.Mallinder nelle vesti di un satanico DJ, che aizza orde di dannati ad uno sfrenato sabba.
Un gradino o due sotto, il secondo disco (registrato in trasferta e senza più Watson), in cui difetta un tantino il senso della misura (si sa, che come compositori non erano proprio delle aquile e che tendevano in genere a farla un po' lunga) ma dove spiccano comunque la cavernosa "Wait and Shuffle" con chitarra ultraterrena e sovracuti di sax che bucano come un Black&Decker un sincopatissimo tessuto sonoro e "Get Out Of My Face", in verità tediosa, ma di rilievo storico in qualità di techno "ante litteram". E' forse da sorvolare sull'evoluzione a distanza dei due superstiti e sicuramente vanno ignorati i maltrattamenti ai limiti della sevizia di una certa parte della critica alla sostanza del gruppo: in quest'occasione, che chiude definitivamente il periodo Rough Trade, i C.V. hanno comunque prodotto come mai prima, musica potente e comunicativa, articolata nelle suggestioni e di grande impatto fisico.
A chi oggi si nutre di Industrial-death-techno-brutal-grind-etc.-core questi suoni, invero tutt'altro che "easy", potranno fare l'effetto di un coretto di Orsoline salmodianti; per chi scrive invece, il disco regge con grandissimo onore gli anni senza perder un grammo della sua forza. In assoluto fra i migliori del periodo.
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