Cabaret Voltaire: avveniristici pionieri dell’elettronica da Sheffield ( UK).
“Per lanciare un manifesto bisogna volere: A, B, C, scagliare invettive contro 1, 2, 3, eccitarsi e aguzzare le ali per conquistare e diffonder grandi e piccole a, b, c, firmare, gridare, bestemmiare, imprimere alla propria prosa l'accento dell'ovvietà assoluta, irrifiutabile, dimostrare il proprio non-plus-ultra e sostenere che la novità somiglia alla vita tanto quanto l'ultima apparizione di una cocotte dimostri l'essenza di Dio.”
(dal "Manifesto del Dadaismo" del 1918, di Tristan Tzara)
Siamo nel 1973. L’Inghilterra è la solita nenia piovosa. Nebbia. Coltri di nebbia. Cielo neogrigio. Un perfetto scenario poetico, malato, industriale. Stephen Mallinder (basso e voce), Richard H. Kirk (chitarra) e Christ Watson (manipolazione suoni) si inventano una delle pagine più interessanti dell’enciclopedia della musica: quella intitolata “Cabaret Voltaire”.
Collettivo che nasce “dalla noia, dalla mancanza di futuro, dal bisogno di creare problemi”. Obiettivo ? Riprodurre le “melodie” urbane della moderna Sheffield, ancora sfregiata da bombe e macerie, in un contesto sonoro fatto di synth, fiati, tape recorder, generatori di ritmo. “Mix Up”: 1979. La rivoluzione era iniziata. Parte “Kirlian Photograph”: “canzone” tutta giocata su fiati distorti, un basso disturbato che incalza per cinque minuti e cinquantadue secondi primi lasciando ben poco respiro a questo scenario claustrofobico. Così come nella cover dei Seeds, “No Escape” e i suoi clangori metallici che anticipano le batterie minimali alla Jesus And Mary Chain. Canzoni che ripercorrono le tracce dei Velvet Underground più allucinati, come “Fourth Shot”: linea di congiunzione ideale tra una “Heroin” amplificata e distrorta e “The Gift” passando per “Maggot Death” dei londinesi Throbbing Gristle.
Il trip paranoico “Expect Nothing” è una psichedelia dark che deve invece molto ai Pink Floyd di “Breathe In The Air” e alle atmosfere di “Ummagumma”. Senza dimenticare i Van Der Graaf Generator. Fiati onirici e percussioni che si susseguono creando una base ritmica ossessiva e contorta. Voci, rumori, onomatopee strappate dalla strada o dai mass media vengono rielaborate per diventare basi musicali, loop, campionamenti. “Cut-up” sonoro al potere. Dadaismo e “ready made” in musica. Con questo disco i tre studenti universitari di Sheffield, si candidavano a diventare il discrimine tra l'elettronica di Kraftwerk, Neu, Einsturzende Neubaten e gli esperimenti avantgarde dei Suicide, di cui un esempio è “Photophobia”: prosecuzione ideale di “Frankie Teardrop”. Stesso pentagramma delirante, accelerato e rallentato ritmicamente. Un superficie ruvida su cui pulsano percussioni ovattate ed echi terrificanti. Uno scenario thriller, colonna sonora ideale per uno splatter anni ottanta alla “Poltergeist” . Ma la vera gemma di questo disco, quella che spiana ai “Cabaret Voltaire” la strada per diventare indiscussi profeti dell’elettronica, è “Heaven And Hell”: macchine impazzite, voci filtrate e manipolate elettronicamente, incubi robotici e angoscianti. La conclusiva “Capsules” è una miscela di poesia industriale, dark wave e, ancora una volta, dance robotica e visionaria.
Un universo popolato da mutanti, videotape, e seghe circolari sembra essersi impossessato di questa ossessione vinilica.
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