Freddo polare. Foreste, foreste e ancora foreste all'orizzonte. Sembra di essere immersi in una notte finlandese ascoltando il nuovo lavoro dei Callisto.
Se "True Nature Unfolds" loro primo album aveva già fatto capire le potenzialità di questi poco più che ventenni finnici "Noir" sboccia dalla scena post-core come un fulmine a ciel sereno. Un suono rugoso ed antico che si lascia penetrare da squarci psichedelici proiettati verso l'ignoto. Volumetria mastodontica. Colori scurissimi e densi shakerati con feedback lancinanti di speranza. Lentezza che toglie il fiato unita a progressioni maestose che aspettano solo di rifrangersi nuovamente dentro paludosi ambienti post-rock o addirittura prog.
Qui dentro tutto è frullato nel miglior modo possibile facendo assumere alla tanto abusata parola post-core nuovi singificati. I Callisto possono davvero ambire a diventare qualcosa di più di una grande band di nicchia. Raramente capita di trovare gruppi che sappiano coniugare impatto ed indubbia perizia tecnica con la capacità di ampliare (in modo radicale direi) i confini di un genere. Questo accade in "Noir", 54 minuti suonati con la forza del metal ma con le fondamenta ben salde nel post-rock ed in quel particolare modo di concepire le strutture musicali e di concatenare le idee seppure evitando le trappole della prolissità.
Per quanto possa sembrare difficile crederlo i Callisto applicano le leggi di espansione musicale degli anni '70 al rigore circolare del post-hardcore. La loro è musica sulfurea e cangiante punteggiata da improvvise impennate e da altrettanti riflussi verso un'asfittica quiete astrale. In mezzo a tutto questo aperture melodiche dal devastante impatto emotivo che vanno a disegnare una sorta di infinito mantra in eterno, imprevedibile divenire. Sempre più di rado capita di imbattersi in un gruppo rock (rock è la definizione giusta!) che sappia sorprendere le nostre orecchie sature di suoni già sentiti. Inseriti a torto o a ragione nel calderone del post-hardcore i Callisto invece sanno distinguersi per un approccio profondo nei contenuti, etereo in alcuni momenti e volto allo sviluppo della musica come arte, un viaggio immaginifico di colori dalle mille sfumature (quasi sempre scure però) che passano dalle tinte della psichedelia ("A Close Encounter", "Pathos") alla sintesi perfetta tra post-rock e metal più ardito ("The Fugitive").
Spesso si ha la sensazione di una maestosa malinconia, il che può sembrare un apparente ossimoro ma nell'interpretazione del gruppo vive allo stesso tempo sia un grande intimismo che a volte sfocia in slanci elegiaci, crescendo piano piano quasi di soppiatto, sia un prorompente impatto "fisico". D'un tratto ti trovi in mezzo ad un vortice chitarristico, come una tempesta che di colpo si placa per lasciare posto a tappeti acustici degradanti nella pace più assoluta. Lo zenith di questi contrasti viene raggiunto nella magnifica "Folkslave", 8 minuti e spiccioli che danno la sensazione di una fuga solitaria nel nulla: accordi lentissimi e poi un'esplosione pesantissima che apre verso la luce per poi, come solito tornare a lambire territori oscuri e ancestrali. Chiude "Woven Hands" austera e terribile, un incrocio se mai fosse possibile immaginarlo, tra i Labradford più cameristici ed i maestri del genere Isis.
"Noir" è uno degli album più compositi e meno scontati che ho ascoltato nel 2006. Lode a chi ancora vede la musica come una forma d'arte da esplorare e da far crescere e non una hit single da passare in radio.
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