Questa è la mia prima recensione su questo sito (quindi, un cordiale saluto a tutti i derecensori). I motivi che mi hanno spinto a trattare di quest'album sono, principalmente, due: il primo consiste nel legame affettivo che ho verso questa sottovalutata prog-band (sopratutto verso il suo carismatico fondatore-chitarrista-principale compositore Andrew Latimer) e il secondo nel fatto che in un'altra recensione, ivi presente su De Baser, l'album sia stato bocciato seccamente, sotto tutti i punti di vista, e definito frutto di un'arida vena compositiva (la mia stima verso il leader del gruppo, infatti, è dovuta proprio al fatto che, a livello compositivo, raramente abbia fallito, almeno secondo il mio modesto parere, seguendo con una inossidabile coerenza il suo credo musicale e la sua libera ispirazione.)
L'album in questione viene pubblicato nel 1984, in un decennio arduo per la "musica progressiva", e in seguito a un lavoro tutt'altro che soddisfacente, intitolato "The Single Factor", che risulta, nel complesso, un nucleo di brani di medio-bassa fattura, realizzato dal chitarrista-leader con tanti sessionman (uno su tutti l'ex Genesis Anthony Philipps), a causa delle defezioni del batterista e fondatore Andy Ward e del bassista Colin Bass. Per evitare un altro passo falso, l'unico membro storico, Andrew Latimer, decide di ricostruire una band vera e propria arruolando: Colin Bass (per la seconda e ultima volta, visto che il buon bassista inglese sarà presente in tutti gli album successivi), l'estroso tastierista olandese Ton Scherpenzeel e il batterista Paul Burgess; e di intraprendere la falsariga del concept-album, abbandonata con l'ottimo "Nude". Il tema, il filo conduttore del prodotto è il muro di Berlino, con tutto ciò che gli gravita attorno.
A validi ed ispirati momenti progressivo-strumentali si affiancano canzoni pop-rock più dirette e immediate, i testi delle quali sono scritti da Susan Hoover (compagna del leader e chitarrista della band), inoltre la chitarra assume la veste di protagonista, con più frequenza rispetto agli album "storici e progressivi al 100 %" (nei quali il duello chitarra-organo era una costante della band d'origine "canterburiana"). Evitando il certosino track by track, che a qualcuno può risultare noioso e scarsamente originale, mi sembra doveroso citare la commovente "Title Track" (amata, profondamente, dal sottoscritto), che, in quanto a struttura compositiva, somiglia alla splendida "Ice" (infatti, entrambe hanno un intro acustico e un outro elettrico, cambia l'intermezzo, che in "Ice" consisteva in un assolo di synth, in questa occasione, invece, in un arpeggio di flauto di pan che va ad introdurre le elucubrazioni chitarristiche del leader).
Altri tre piccoli gioielli strumentali sono "After words", un brano malinconico e intimista composto da T. Scherpenzeel, la cupa "Pressure Points", caratterizzata dall'intrecciarsi delle scure tastiere con la chitarra elettrica agressiva e metallica, e la sognante "Missing", in cui domina, ancora, la sei corde . Lo spazio per il romanticismo non manca con le ballads "Fingertips" e "Long Goodbyes", che offre un ottimo assolo di chitarra elettrica. Infine c'è un' impetuosa comparsata dell' organo Hammond, strumento che ha marchiato il rock anni 70', sul finale di "Cloak an Dagger Man", con il quale il tastierista olandese sembra cavarsela bene, quasi quanto l'indimenticato e compianto Peter Bardens, elemento fondatore della band. Il resto è tutta musica di stampo AOR ben curata ed eseguita ,ma non originalissima, che non resta impressa nella memoria nè dell'ascoltatore, che si imbatte ,per caso o curiosità, in quest'album, e neanche in quella dei fan storici della band.
In conclusione un album segnato da momenti alti e bassi, e che quindi non ha il fascino senzatempo di lavori come , "Mirage", "The Snow Goose" e "Moonmadness" ( il trittico che ha consacrato e portato alla ribalta il quartetto di guildford nel mondo "progressivo") , ma comunque ispirato, ragionato, abbastanza coerente con gli standard musicali seguiti nel passato da Latimer & soci, nel quale il talento strumentale della band viene messo in mostra, sempre con misura e eleganza. La pecca, che i "progster" autentici non perdonano, è l'eccesivo ricorso a sonorità elettroniche e ai synth, più incisivi, ma meno limpidi e genuini delle tastiere e qualche canzone pop-rock trascurabile, sul piano compostivo.
Un 3,5 che, chiudendo un occhio si trasforma in un 4.
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