Può un film di un ora e quarantacinque minuti essere considerato un capolavoro nonostante per quasi un ora non succeda pressochè nulla? Sì, può. O meglio, lo può un film solo: "Totò, Peppino e la... malafemmina".
Delle tante coppie comiche passate alla storia del cinema (Stanlio & Ollio, Gianni e Pinotto, Fernandel e Gino Cervi, Franco e Ciccio), la coppia Totò e Peppino era la migliore. La più speculare, quella che si muoveva meglio fra le pieghe dei meccanismi comici. Totò innescava la scintilla, Peppino la raccoglieva, la ripassava a Totò, che la spegneva definitivamente. Per chi volesse approffondire meglio il discorso (lungo e complesso, per altro), consiglio il bellissimo libro di Alberto Anile, "I film di Totò" (ed.Le Mani, € 22,72, pagg. 488). Ma al di là del personaggio Totò, (folle, stralunato, serio, impostato, burattino, maschera, giullare), volendo limitare il mondo De Curtis solamente a questo film, non si può negarne la grande valenza storica.
Nell'Italia degli anni Cinquanta, o eri un regista impegnato (Fellini, Antonioni) o non valevi niente. Le case di produzione volevano solo film seri ed impostati, e snobbavano i film, cosiddetti, popolari. Che poi erano i film di successo. Insomma, se "La notte" di Antonioni non se la filava nessuno, "Poveri ma belli" di Dino Risi riempiva le sale. Accadde così, che onesti mestieranti e più che valevoli artigiani del cinema "popolare", i vari Sergio Corbucci, Steno, Fernando Cerchio, Luigi Comencini, Camillo Mastrocinque, Lionello De Felice, poterono sperimentare diverse forme di comicità, senza doversi sobbarcare le romanzine della produzione, datosi che, nessuno, voleva saperne nulla.
Camillo Mastrocinque, è stato uno dei più grandi "artigiani" del cinema italiano. Ed il più grande regista della coppia Totò e Peppino. Suoi, i celebri "La banda degli onesti", "Totò, Peppino e i fuorilegge" (che poi è una riproposizione de "I figli del deserto" di Stanlio e Ollio, riveduta e corretta). Il suo capolavoro resta però, "Totò, Peppino e la... malafemmina", un film girato con pochi mezzi e poco tempo a disposizione, senza copione, lasciando piena libertà di improvvisazione ai due attori.
La realizzazione fu un disastro: Totò era già impegnato su altri set, e, datosi che lavorava solo dal primo pomeriggio fino a tarda sera (snobbava il mattino), si faceva vedere poco sul set; Peppino era alle prese con una tourneé teatrale in Sudamerica ed aveva i giorni contati; la sceneggiatura era un colabrodo, mancavano intere sequenze, i dialoghi erano incompleti, insomma, era come se non ci fosse; gli esterni, finchè venivano girati a Napoli e provincia erano accessibili, ma la "trasferta" a Milano fu un collasso finanziario. Camillo Mastrocinque si accorse subito che, se voleva girare un film solo con Totò e Peppino, ci sarebbero voluti degli anni. Scritturò dunque, velocemente, tre nomi di grido (almeno all'epoca): Teddy Reno, Dorian Gray ed un giovanissimo Nino Manfredi.
Questi tre girarono gran parte del film, a Totò e Peppino il resto. La cosa bella è che, le scene con Totò e Peppino, malgrado non siano di lunghezza spropositata, sovrastano di netto, tutto il resto del film. Per cui, per un oretta buona si può appisolarsi, per tre quarti d'ora stare svegli. E sono proprio quei tre quarti d'ora ad essere entrati nella storia, con la forza anarchica e prorompente di Totò e Peppino. In pratica, una sintesi dei loro momenti comici più alti. Scene, da citare senza remore, copiate, ormai da anni, da qualsiasi comico alle prime armi. Dal memorabile arrivo a Milano (così li aveva avvertiti Mezzacapa, il fattore vicino di casa dei due fratelli Caponi, Totò e Peppino: "A Milano c'è la nebbia. E quando c'è la nebbia, non si vede"): eccoli dunque arrivare alla Stazione Centrale, impellicciati come se partissero per la Russia: colbacco, lanterne, stivaloni, e Peppino che si lamenta: "Io però sento caldo!". Il dialogo col "ghisa" in Piazza Del Duomo, che i due scambiano per un tedesco: "Noi volevan savuar l'indiriss...", la scena finale al ristorante a base di qualsiasi gozzoviglia, con Teddy Reno che intona la "Malafemmina", di decurtisiana memoria.
Ovviamente, il momento più alto, è la famosa dettatura della lettera. Il momento più alto di tutta la storia della comicità italiana. Un attacco senza pudore alla lingua italiana, ed alla grammatica. L'hanno copiata Franco e Ciccio, e ci hanno provato pure Roberto Benigni e Massimo Troisi in "Non ci resta che piangere", quando vogliono scrivere al Savonarola. Quella di Totò e Peppino è la summa di un modo di concepire la comicità ormai perduto, è l'esempio più alto di come si possa essere artisti pur non avendo nemmeno uno straccio di copione. Ne riporto il testo, consigliando la visione del film (qualora non l'avessero ancora visto) alle nuove generazioni, quelle che pensano, per palese ignoranza cinematografica, che l'improvvisazione sia quella di Ale e Franz.
"Signorina, veniamo noi con questa mia addirvi che scusate se sono poche ma settecentomila lire ("punto e virgola!") noi ci fanno specie che questanno c'è stato una grande moria delle vacche, come voi ben sapete ("punto! due punti Massì, fai vedere che abbondiamo... Adbondantis in adbondantum!") questa moneta servono a che voi vi consolate dai dispiacere che avreta perchè dovete lasciare nostro nipote che gli zii che siamo noi medesimo di persona vi mandano questo perchè il giovanotto è studente che studia, che si deve prendere una laura, che deve tenere la testa al solito posto cioè sul collo. ("Un punto e un punto e virgola" "Troppa roba" protesta Peppino. "Lascia fare..." ribatte Totò, "che poi dicono che siamo provinciali, che siamo tirati..."). Salutandovi indistintamente, i fratelli Caponi (che siamo noi).".
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