" Padre se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un
estraneo,
per te stesso egualmente ti amerei ".

Così scrive Camillo Sbarbaro in una delle poesie più conosciute di "Pianissimo", la sua opera poetica più nota di tutti i libri di poesia e prosa che ha scritto.

Il padre ha qui due poesie ma a lui che questo libro è dedicato. 

Quando "Pianissimo" viene pubblicato nel 1914, Sbarbaro ha 26 anni e suo padre è morto da due. Sua madre è mancata quando lui ne aveva cinque (per tubercolosi) ed è stato cresciuto (con sua sorella, da lui molto amata) dalla sorella di lei (anche la zia molto amata dal poeta).

Nato a Santa Margherita Ligure, vicino a Genova, e morto a Savona nel 1967, è a mio parere il più semplice dei poeti italiani del '900 che ha scritto sotto la diretta dettatura del cuore, senza stili ricercati di scrittura che avrebbero bisogno di più di un ragionamento. Con l'assenza poi di conoscenze filosofiche, queste poesie danno modo di avere già un'idea di che vita abbia vissuto il poeta in quei momenti, se non si ha ancora avuto modo di  leggerne qualche nota biografica.

"Pianissimo"  nasce precisamente quando una notte, forse di ritorno da un bordello (Sbarbaro li frequentava spesso), era disteso sul letto con "i sensi sazi", dove "sull'affiorare di torbidi istinti e nausee sessuali" gli veniva dal cuore una constatazione: "Taci anima stanca di godere e di soffrire", che definiva una condizione, dominata dal lutto "patito in anticipo" della morte che vedeva vicina del padre.

Un'altra composizione per il padre sul letto di malattia (dove il poeta affermava l'ammirazione per il padre che, nonostante la "fortezza" con la quale lo aveva cresciuto, aveva amato la sua famiglia unito ad una confessione di perdono tutta particolare), "Pianissimo" prendeva forma, anche se per arrivare al titolo Sbarbaro ha accettato il suggerimento di un appassionato di musica, contro il suo "Sottovoce".

Ma fatto sta che tutte e due i titoli danno già l'idea dell'opera: Sbarbaro racconta appunto "pianissimo" e "sotto voce" (e in maniera oggettiva) la sua vita fatta di uno svuotamento interiore e totale di ogni valore morale e spirituale, con un'esistenza arida, da persona assente tra gli uomini, in un mondo che è altrettanto arido, vuoto di tutto.

Qui si è nella prima sezione (di due) dove Sbarbaro analizza la sua condizione e quella dell'umanità a lui attorno. Lui è un "sonnambulo" che cammina senza accorgersi di sè stesso e della vita: ma quando ha dei momenti di "risveglio" nella mente si rende conto dell'inutilità della vita stessa, fatta di "speranze sempre deluse", e di una morte che non dà dignità all'uomo, perché l'uomo stesso è come un "fantoccio senza vita", e un essere senza vita propria che vive solo per necessità.

La città dove lui cammina (molto probabilmente Genova, dove in quegli anni abitava) è una città fredda e silenziosa, in cui lui si ritrova a vivere come un estraneo, a tal punto da paragonarsi, "opaco" e "silenzioso", alle case che vede. L'umanità a cui si affeziona è fatta di prostitute, ubriachi e altra gente miserabile, dove c'è un qualche segno di vita. Gente che rappresenta però una rinuncia alla vita, già di per sè inutile.

La sua condizione di sonnambulo non gli impedisce però di voler sentirsi vivo con il dolore, per provare forte l'amore per il padre e per la sorella. Ma il dolore per sua natura prima o poi passa e lascia il vuoto. Questo processo ripetuto è la "consuetudine", che lui non vorrebbe.

Più ho studiato Sbarbaro e più ho capito il suo carattere. Lui desidera come bambino ("fanciullo") provare veri sentimenti. Ecco perché pure da qualche parte si legge a proposito delle lacrime, di "poterle piangere tutto solo" e (in una delle poesie dedicate al padre) "amare" che non vogliono uscire dagli occhi.

Il momento storico in cui scrive è quello dell'industrializzazione massiccia delle città e la vita si fa meno autentica. Nella gente benestante si fa molto di finzione. Quando si parla di "imborghesimento" si intende anche la perdita di ogni autentico rapporto tra le persone. Nella natura invece c'è un piccolo ribaltamento per il poeta. Una "calma quasi sorridente" (come scriveva Eugenio Montale in una recensione a lui dedicata), ma nella natura lui non si sente una presenza attiva bensì passiva. Della natura tutto accetta (anche le cose "consuete e vili") ma sente che la natura può fare a meno dell'uomo (si veda la seconda poesia).

La seconda parte è fatta del cammino e dell'immersione del poeta nelle zone malfamate della città, dove prova un senso di fraternità soprattutto con gli ubriachi (definiti "meteore della società"), uno dei simboli della follia e della perdizione, per liberarsi dell' "io" troppo pesante da portare (questo avrà forse determinato nel suo carattere di avere solo pochi amici?).

Per le prostitute viene cantato di un "amore" mai fino in fondo consumato e neanche fino in fondo goduto (un racconto di "Trucioli" lo spiega ancora meglio). E in ambito di prostitute la figura della donna-angelo, salvifica, nella penultima poesia.

La conclusione di "Pianissimo" si ha con il poeta sorpreso da un canto di cicale che gli ricorda la natura. Ma il libro nato in città si conclude con la città: Sbarbaro scrive di "sentire l'anima che aderisce ad ogni pietra della città sorda, come un albero che ha messo tutte le radici".

"Pianissimo" è la prima opera in Italia e forse in Europa che parla della solitudine dell'uomo moderno, e credo oggi abbia ancora qualcosa di attuale. Se anche la società sta meglio, esiste sempre l'incomunicabilità (e l'accettazione di tutte le cose: perché niente nella vita è "buono" e niente nella vita è "triste" - a proposito della chiaroveggenza che il poeta aveva nel 1914 - e che bisogna rassegnarsi. Sicuramente non bisogna rassegnarsi ma combattere, anche in virtù di cose buone che sono state fatte in questi decenni. Ma se c'è una rassegnazione, è quella di ammettere che la società andrà sempre di male in peggio).

Ritornando a quegli anni, la solitudine e anche la perdita di identità sono temi già affrontati da Pirandello e da Svevo. Ma dopo "Pianissimo" ci sarà la fioritura di romanzi che tratteranno questi temi. Pure per via della teoria della psicanalisi di Freud.

Nel 1920 esce il suo primo libro di prosa, "Trucioli", recensito in maniera entusiasta da Eugenio Montale (influenzato per la sua prima opera da Sbarbaro stesso, scrivendogli anche due poesie). Il titolo come altri successivi spiega la rinuncia dell'autore (ora scrittore) alla letteratura.

Qui scrive di sensazioni e avventure per osterie e per la città, di ricordi dell'infanzia e del passato e descrizioni a colori forti e accesi di alcune vie di Genova e di alcune località della Liguria. 

Le storie di personaggi visti nelle osterie o nelle vie della città, molte volte umili e/o miserabili. In un diario, forma che mantiene in buona parte della sua produzione.

"Trucioli" si allarga a testi scritti durante l'arruolamento e la partecipazione alla Grande Guerra e nei due decenni successivi. Particolare valore hanno le pagine stampate in corsivo che descrivono bene il carattere, le sensazioni di vita e le avventure dello scrittore.

"Scampoli", che viene dopo, mantiene l'impostazione di "Trucioli" e in alcune parti riporta alle atmosfere di "Pianissimo" (ma anche "Trucioli" risente della stessa opera poetica).

Se sarete meravigliati da Sbarbaro, penso che lo sarete per i racconti di situazioni strane, non presenti normalmente nella letteratura italiana, oltre che delle sue "particolari" caratteristiche. Il suo amore per gli "ultimi" - qualcuno scriveva "per lo scarto" - caro anni dopo a De André, ma per ragioni diverse. E il suo amore per i bambini, espressione più innocente e autentica di un'umanità vuota e disperata.

Sbarbaro a Spotorno, dopo Savona, dai primi anni '50 per concludere la vita in una casa sui monti (non proprio, ma quasi) con il desiderio di morire in pace nella natura (leggasi "Pianissimo").

Intanto ha raccolto alcune poesie messe da parte sotto il titolo di "Rimanenze" (1955) (molto belle, ma ancora di più i "Versi a Dina", di venti anni prima) e le sue collezioni di licheni (di fama mondiale).

Ho scritto tanto, ma volevo farvene innamorare. La sua semplicità mi ha colpito, e oggi godo ogni singolo momento della mia vita (una canzone, un abbraccio e bacio - sulla guancia - con una ragazza e un piatto fatto bene) anche grazie a lui,

CAMILLO SBARBARO.

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