È come riconoscere l’essenza di un’anima.
“Our Beloved Revolutionary Sweetheart” è un cerchio sacro tracciato in un mondo profano: intimità, evasioni, rituali, guarigioni, terra, pioggia e calore. Tutto che scorre verso un punto d’arrivo e d’incontro. È come aver ascoltato bene la propria storia, essersi fatti benevolmente familiari, calcare l’impronta della propria anima. E dirsi: sei nato dov’è capitato (Redlands, San Bernardino County!), hai qualche capacità e molti limiti, hai le poche opportunità che ti spettano, hai il solo scopo di essere i Camper Van B. al tuo meglio! Non desiderare di essere nessun altro. Forse, pure, essendo già quasi tutti (tipo Holy Modal Rounders, Modern Lovers, Grateful Dead etc.).
Epigoni, i soli, dei Kaleidoscope (USA). Eredi del loro ecclettismo, lo trapiantano negli ’80. In origine, dalla stramba prospettiva dello ska. Giungendo a un idioma folk-rock-psichedelico florido. Indie, sì, col respiro di musicisti che suonano nella libertà (David Lowery ,canto e chitarra, e Jonathan Segel, violino e tastiere). Il quarto lavoro, primo per una major, pochino ripulito dall’incantevole patina trasandata e granulosa fin il giorno prima, è sotto l’egemonia, se non dittatura, di Lowery; accentua la concisione, con strutture più risolte nel formato canzone rispetto l’immediato predecessore ma non meno creative e speculari. Non mancano schegge di lampi di genio a guizzo, vivide, impazzite, di quel che fu, da principio, da loro stessi definito “surrealist absurdist folk”. I brani, mai irrisolti, sono partecipi di una dinamica fusione dei generi, impellente, a compressione, in un ibridismo sonoro che alletta e che non è mai giustapposizione o scavalco. Mettiamoci poi l’irriverenza elegante (chi non ricorda tra i titoli dei vecchi lotti “The Day That Lassie Went to the Moon”, “Take the Skinheads Bowling” o “ZZ Top Go To Egypt”?), il loro sapere sardonico e ribellista, ma privo di veleni o risentimenti, votato invece alla comprensione (eppure esecrato dalle “sopracciglia pungenti di mamma”). Così “Our Beloved Revolutionary Sweetheart” è una summa scompigliata ma bilanciatissima, garrula ma endemica, piena di pathos e di sgusciante ingegno: folk, hard rock, punk rock, country, valzer, musica etnica, acid rock, cenni funky (lodevole Victor Krummenacher al basso!). Il tutto in una dimensione paradossalmente classica.
“Eye Of Fatima (Pt. 1 & 2)” è una country rock ballad, ricca di insidie punky stranamente gioviali, che muta, senza più somiglianze nella seconda parte, in raga rock; “Change Your Mind” un contagioso e swingante valzer su illanguiditi ottoni; “My Path Belated” le serpentine del violino e l’ipercinesia di un ritornello killer; “Tania” è dedicata alla curiosa vicenda di Patricia Campbell Hearst, figlia di ricchissimi imprenditori californiani, che nel ‘74 venne rapita da un gruppo di guerriglia urbana (l’Esercito di Liberazione Simbionese), che volle come riscatto la distribuzione di 400 milioni di dollari ai poveri; in seguito però Patricia, simpatizzando coi suoi rapinatori, divenne appunto “Tania”, lei stessa loro complice e rapinatrice di banche. Infine,“She Divines Water”: un folk stralunato, come un amplesso polimorfo e stordente, con un finale convulso, un assurdo cut-up, e una coda strumentale appacificata. Un testo splendente:
“Come posso credere che tutto in questo mondo andrà bene? Come posso credere che tutto in questo mondo abbia il suo posto e il suo tempo? Quando mi sdraio per dormire, sento il mondo girare leggermente fuori asse, ha la forma di un fico! E quando mi trovo accanto a te, tremo e temo. Mi dici che mi ami e sogno di essere sveglio”.
“Our Beloved Revolutionary Sweetheart” è, insomma, l’anima di un ragazzaccio che sputa pallini ma non nasconde la cerbottana né il suo sguardo profondo. È il ritratto del “nostro più caro rivoluzionario innamorato” perché ha sempre il cuore grande in mezzo ai polmoni. È il ritratto di un’anima.
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