Il 1985 segnò l’esordio di una bizzarra band di San Francisco, i Camper Van Beethoven. La loro proposta musicale era una delle più suggestive dell’epoca. In tempi di hardcore, noise e thrash metal, i CVB spiazzarono tutti con un caleidoscopio di stili etnici, presi in prestito dalle culture di mezzo mondo e shakerati in gustosissimi cocktail multicolore.

L’operazione si ricollega a quella che era appena stata compiuta, in quel di Los Angeles, dai Minutemen: concentrare in brani-miniatura un’ingente quantità di spunti stilistici, organizzati in strutture coese, sia pur talora paradossali. Quello che però i Minutemen facevano con soli 3 strumenti (basso/chitarra/batteria) e servendosi soprattutto di espedienti funk e jazz, i CVB lo facevano con una strumentazione allargata e attingendo dall’ampio patrimonio folk mondiale. All’estrema eterogeneità del loro paniere sonoro, faceva riscontro l’utilizzo di alcune costanti, le quali, ripetendosi in diversi brani, contribuivano a fare di questo loro debut-album un’opera paradossalmente unitaria: la cadenza ska della chitarra ritmica, l’organetto da spiaggia, il violino di J. Segel.

Il melting-pot dei CVB non risparmia nessuno: Messico (il calypso di “Border Ska”), Spagna (il flamenco di “Yanqui Go Home”), Grecia (la rebetika di “Payed Vacation”), Russia (“Vladivostock” e “ Balalaika Gap”), Italia (la tarantella di “Skinhead Stomp”), Boemia (la polka di “Tina”), Cina (il balletto di “Mao reminisces”) e ovviamente U.S.A. (il country di “Where the Hell is Bill”) entrano con estrema naturalezza a far parte del DNA globalizzato di questo ensemble stravagante, degno erede dei pochi che in passato proposero un approccio così trasgressivo alla tradizione musicale, come i misconosciuti 'Holy Modal Rounders' nei pazzi anni 60.
Scontato, ma doveroso fare (anche in questa occasione) il nome di Frank Zappa tra gli ispiratori dei CVB. Lo spirito freak della band di Frisco va di pari passo con quello “punk”, che infonde irriverenza all’intera operazione (specialmente nelle liriche), manifestandosi in particolare in due occasioni: “Wasted”, che ricorda l’incedere baldanzoso dei Fall e va in gloria con l’assolo di violino più sguaiato della storia, e l’irresistibile “Club Med Sucks”, che comincia al passo sbrigliato di una quadriglia, si impaluda in un vizioso garage-rock stoogesiano e sfocia in una strafottente sfuriata hardcore alla Adolescents. Se “The day that Lassie went to the moon” si riallaccia alle febbrili progressioni dei Velvet Underground, a dilagare è l’idioma del folk-rock, che si fà strada nel refrain byrdsiano di “Oh No!”, negli arpeggi onirici di “I don’ t see you”, nell’immediata “Take the skinheads bowling” (infarcita di tipici coretti west-coast) e nell’ anthem conclusivo, l’accorata, rassegnata, dolce-amara ballata “Ambiguity Song”. L’unico momento cupo, inquietante del disco è “9 of disks”, il brano più astratto, con una sezione d’archi a creare un tessuto armonico atonale.

Un disco piacevole, divertente e intelligente nell’attingere alla tradizione senza cadere nella trappola del puro revivalismo.

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