Dove saremmo andati lo sapevamo già. Così ce ne andammo, rutilanti, verso un’altra direzione. Così ce ne andammo infantilmente sulla luna. Il viaggio, d’altronde, l’avevamo già intrapreso nei nostri giorni futuri d'un tempo, ed altrove labirinticamente già peregrinammo, di scoperta in scoperta, in un immenso viandare. Ma quel che sulla luna avremmo trovato non lo sapevamo affatto: solo e soltanto ritmo, febbrile ma smorzato, a calibrare il nostro respiro. Non una voce, non un’intrusione, nell’algido tessuto che ci circondava, e dal quale il nostro suono veniva ora sempre più avviluppato. La voce avevamo, di nuovo e per sempre, perduto. Ci arrangiammo, arrotolati in acidi altalenanti tappeti sonori, lasciando a noi stessi il peregrinare in musica, orsù. Un ritmo vivente, il nostro, di moto meccanico il cuore ora e sempre pompava: quel muscolo involontario c’è chi lo chiamò Jaki Liebezeit. Non saprei dire, tra noi non parlavamo. Attoniti, suonavamo soltanto. La nostra ipnosi, un rituale. Il nostro rituale, una sempiterna ripetizione. Ci lasciammo alle spalle, con la polvere negli occhi e la luna ancora allo zenit, tutto ciò che non serviva.
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