Ad un anno dalla scomparsa del Capitano, mi pare doveroso omaggiarne il genio. I dischi di Van Vliet si trovano in vendita a meno di 6 euro l'uno: davvero onesto, se si pensa che si tratta di opere capaci di cambiare la mente di chi le ascolta, per quanto sono ostinate nel travolgere le barriere erette dai "generi", che imbavagliano quel flusso indistinto di fonemi che è la musica. Pare alquanto limitativo affermare, come fanno alcuni suoi detrattori, che Van Vliet abbia avuto la semplice intuizione di applicare al blues-rock le conquiste armoniche del free-jazz: in realtà Van Vliet era semmai il pittore del rock, un pittore ora espressionista, ora astratto, ora cubista, ora surrealista o dadaista. Quello che faceva con la tavolozza dei colori (dedicandosi a tempo pieno alla pittura dopo il suo ritiro dalle scene nei primi anni 80) riproponeva con le note musicali, impartendo ai suoi collaboratori indicazioni "cromatiche" su come suonare gli strumenti.
"Shiny Beast" esce nel 1978 dopo mille casini discografici che francamente vi risparmio, compreso un cambio di titolo. Esce quindi in piena era new-wave, quel ribollire di idee ed innovazioni che i primi dischi di Captain Beefheart avevano contribuito ad ispirare. Vi suona una Magic Band completamente rifondata, con contributi anche delle Mothers Of Invention dell'amico rivale Frank Zappa. Già "The Floppy Boot Stomp", in apertura, si propone come uno scintillante compendio del Beefheart-pensiero, qui in versione sinfonico-progressiva, poli-cromatica, tridimensionale, galvanizzata da innesti bandistici nello spirito di Zappa, ma d'altra parte memore dei propri modelli storici: da un lato la slide eretica di "Safe As Milk", dall'altro la bilancia scassata di "Trout Mask Replica". Senza perdere il tocco naif dei suoi dipinti, Van Vliet disegna le consuete geometrie precarie, per poi accartocciare la tela facendola sbavare in chiazze di colori secondari. Non c'è spazio per acquarelli; solamente tempere. O al limite, la penna biro, ai cui tratti perentori ci si affida per gli scarabocchi indelebili di "Suction Prints".
Ciò che rende impareggiabile la musica del Capitano è il fatto di essere al contempo viscerale e cerebrale ai massimi livelli: è un'instabile ed incessante balletto di capovolgimenti e ripensamenti, che non cade mai nello sterile intellettualismo e non perde mai l'istinto ferino della tradizione nera. Anche quando, con lo strumentale "Ice Rose", tenta un'impervia articolazione di scale, accostandosi al Frank Zappa "serio", come a certe "fusioni" progressive in voga all'epoca o all'alt-jazz di Canterbury, Van Vliet non smarrisce quello spirito, risentito ma fiero, da talento ripudiato dal vacuo star system musicale.
I due pezzi caraibici del disco, "Tropical Hot Dog Night" e "Candle Mambo", possono essere scambiati per scherzi, parentesi goliardiche, quando invece definiscono meglio di altri lo spirito di Captain Beefheart. Gioiose, anarchiche, nel segno di un infantilismo sorridente e capriccioso, ideale trait d'union fra il Robert Wyatt svagato di "End Of An Ear" e il David Thomas edonista dell'era Pedestrians, rispondono al serioso catastrofismo dell'emergente "musica industriale" con un festoso show di marimba: è quel sentimento di evasione da una realtà troppo brutta per essere vera, parente stretto di quello espresso da "Dub Housing" dei Pere Ubu.
Il meglio arriva però laddove si palesa tutto l'influsso di Captain Beefheart sulla new-wave più sperimentale. "When I See Mommy I Feel Like A Mummy" potrebbe stare su un disco dei The Fall, se non fosse per una chitarra alla Birthday Party. Tinteggia tutta l'indolenza di una vita votata all'apatia, che però è solo una maschera della depressione; un senso di nausea insostenibile, di angoscia sotterranea, di malessere insanabile, fino alla pura abiezione, evapora dalla sciatta orchestralità di un arrangiamento che pare voler liquefare e rendere inconsistente ogni strumento in gioco: vengono in mente certe cose indefinibili dell'underground anni 80, ibridi perversi e sofferti come No Trend o Tragic Mulatto.
Le sorprese di questo ricchissimo album paiono inesauribili: Van Vliet, compositore "barocco", esplosivo, debordante, è riuscito pure ad abbracciare in un paio di occasioni quel minimalismo da lui sempre osteggiato. Come nell'ossessiva "Bat Chain Puller", altro capolavoro, un puro stato mentale disturbato: una fanfara di dissonanze e sgradevolezze, colori mischiati alla rinfusa; una parata di ottoni mutanti, che accoglie nella sua processione per le strade di una città inesistente tanto le interferenze elettroniche alla Allen Ravenstine quanto un'estrema metamorfosi dello stile di canto più vecchio del blues, il call'n'response. "Owned T'Alex" è ancora dissociazione mentale, nevrosi sommessa, anelito alla pura dissoluzione, ad un'estasi grigia, neutra, anaffettiva.
Ci sono anche brani più modesti, dove ci si appoggia a stili consolidati, nel quali tuttavia emerge la strepitosa espressività vocale di un Van Vliet capace di tutto: "Love Lies", corrucciato blues da notte fonda; "Harry Irene", puro revival anni 30 con fischiettìo alla Lovin' Spoonfull; ma soprattutto "You Know You're A Man", polverosa epica da deserto, cactus e cobra, che riporta ai fasti di "Moonlight On Vermont".
Ogni brano di Captain Beefheart può passare con disinvoltura dall'ilarità più sciocca all'abisso più nero: basta un cambio di ritmo, di tono, di timbro...un piccolo sconquasso in un equilibrio impossibile da mantenere per più di un istante, per far cadere ogni certezza non solo delle proprie idee, ma anche delle proprie emozioni. In "Shiny Beast" alle sfaccettature compositive, si aggiungono quelle degli arrangiamenti, dei suoni, dei colori, a rendere la coscienza ancora più fragile, la percezione della realtà ancora più relativa, la mente ancora più dissezionata. Onore a te, compianto Capitano, per averci mostrato quanto siano incomprensibili i nostri pensieri e i nostri stati d'animo.
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