Carlo Buti.
L'usignolo. La canzone all'italiana, le arie, la leggerezza, un grammofono, i nostro bis-bis nonni lì davanti, e accanto al camino ad ascoltarne i favolosi gorgheggi, quando ancora la musica era così, niente di complicato, ma solo una bella voce accompagnata da qualche strumento a raccontare della "Reginella campagnola" o del "primo amore" "fiorin fiorello" se non addirittura della "Faccetta nera".
Io ogni tanto vorrei esserci là (se stava mejo quanno se stava peggio?), davanti a quel camino ad ascoltare questo grande cantante (nell'accezione più pura del termine), intonare un'aria che non mi faccia pensare che sono sotto un regime duro, pesante, e che quel pezzo di pane me lo devo sudare fin troppo, e via, chi di retorica più ne ha, più ne metta, che qua ci sta proprio bene.
Tutto ciò ora non c'è più. (C'è mai stato?)
Debbo purtroppo constatare che anche i sentimenti di purezza cui tanto anelo sono un'utopia, e non ci sono neanche mai stati, e mi sto perdendo nel mare magnum della nostalgia, e non c'è nostalgia più canaglia di quella che ti rimanda ad un qualcosa che non c'è mai stato. Eppure, ascoltando Carlo Buti posso un po', almeno, sognare, che non è mai costato nulla e almeno questo non è appannaggio dei grandi e dei potenti, (forse a loro è addirittura precluso) e almeno per un momento spiccare il volo.
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