Uscito nell'83, "Acqua e sapone" costituisce un ideale dittico assieme al precedente "Borotalco" ('82), descrivendo in maniera lieve, ma non per questo priva di profondità, le difficoltà dei rapporti d'amore e le frustrazioni della vita piccolo borghese, provinciale, degli abitanti della più grande città di provincia del nostro paese... Roma.
Un giovane alle prese con perenni problemi di lavoro (Verdone stesso) si improvvisa istitutore privato di una giovane fotomodella italoamericana (Natasha Hovey), travestendosi da prete. Il suo gioco viene presto scoperto dalla ragazza che, tuttavia, si innamora dell'uomo, e si fa coinvolgere dalla sua vita e dalle sue abitudini, in fondo semplici e genuine, per fuggire al patinato mondo della moda, fin tanto che una madre troppo attenta alla sua carriera (Florinda Bolkan), e la stessa volubilità della giovane, faranno scemare il sentimento e la voglia di fuga verso un ritorno alla normalità ed alle conseguenti divisioni sociali e diverse visioni della vita.
Già dal breve riassunto della trama è facile cogliere, a mio parere, la maturazione del linguaggio cinematografico di un Verdone che, verso la metà degli anni '80, cercava una via d'uscita autoriale rispetto ai bozzetti degli esordi, utilizzando le proprie abilità trasformistiche e la stessa capacità di creare buoni meccanismi da commedia degli equivoci per un analisi più matura dei rapporti fra le persone, condotta senza piglio didattico, o senza verità da insegnare, ereditando lo sguardo disincantato di certo neorealismo.
Neorealismo che, al pari di "Borotalco", riluce in questo film sia mediante la connotazione dei personaggi e l'affettuosa descrizione della vita piccolo borghese del protagonista (grazie alle belle caratterizzazioni di sora Lella Fabrizi e dell'esordiente Fabrizio Bracconieri), che attraverso la consolidata scelta dei "non luoghi" in cui si sviluppa la storia, avulsi da inutili retoriche e restituiti nella loro normalità (dagli interni della casa del protagonista, ai bar, ai ristoranti ed agli esterni).
Si tratta, al contempo, di un lavoro giovanile di Verdone che, sotto taluni aspetti, pecca di ingenuità e di eccessiva superficialità nello sviluppo della trama: troppo marcata, e financo bozzettistica, la caratterizzazione del mondo della moda, per certi aspetti gratuito il suo richiamo ai fini della storia messa in scena dal regista romano (il divario fra i due protagonisti sarebbe emerso, oltre che per età, anche a fronte della caratterizzazione della ragazza come una qualsiasi alto borghese capitolina), eccessivamente frettolosa la risoluzione della vicenda, un po' sfilacciato lo stesso sviluppo della storia.
Al contempo, si tratta di un lavoro per certi aspetti poetico, soprattutto nella parte finale del film, in cui il protagonista percepisce l'inadeguatezza del suo rapporto con la ragazzina, l'oggettiva difficoltà a superare divari generazionali e sociali che travalicano l'amore del "qui ed ora", e nella toccante scena su cui scorrono i titoli di coda, dove il protagonista si abbandona, assieme ai propri amici, su un campo di grano nei pressi dell'aeroporto, per vedere dapprima gli aerei (e gli amori) in partenza, passando poi ad un bello liberatorio mentre le note di una canzone portante del film escono dall'autoradio - simboleggiando l'aspirante istitutore che torna alla goliardia ed all'irrisolto cazzeggio post adolescenziale.
Bella, da ultimo, la colonna sonora di Stadio e Vasco Rossi, ed interessante l'interpretazione della sedicenne Hovey, con un Verdone sempre sugli scudi. Cameo di Christian De Sica per un film che, comunque, va ricordato ed apprezzato sia dai fan di Carlo che dagli amanti del cinema all'italiana.
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